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 2012  dicembre 14 Venerdì calendario

L’ULTIMA RAFFICA DI SILVIO


Le sue vere intenzioni le aveva rivelate a pochi fedelissimi, nei giorni in cui sui giornali e sulle tv Angelino Alfano continuava a giurare che si sarebbero svolte le primarie nel Pdl e che lui sarebbe stato eletto candidato premier. «Ho deciso: mi ricandido», lo smentiva in privato Silvio Berlusconi, così, tutto d’un soffio, una sera a Palazzo Grazioli, scrutando sul viso le reazioni dell’interlocutore, a metà tra lo stupore e il terrore. «Lo so, è una follia», aveva subito aggiunto il Cavaliere anticipando le obiezioni. «Ma se non mi facessi muovere dalla follia non sarei mai entrato in politica e non avrei mai fatto Forza Italia». E a quel punto, a testimonianza del suo stato d’animo, era scoppiato a ridere. Una lunga risata liberatoria.
L’ultima follia di Silvio, in pochi giorni, ha sconquassato la politica italiana e europea. E preoccupa chi non ci trova nulla da ridere, anche nel Pdl. «A un momento di follia vero e proprio segua un’assunzione di responsabilità per far capire che Mario Monti è necessario», ha reagito il ciellino Mario Mauro, vice-presidente del Parlamento europeo, l’azzurro più sensibile agli umori che si agitano nel Ppe egemonizzato dai democristiani tedeschi di Angela Merkel. Anticipando lo scontro che verrà. Il duello: tra il Cavaliere e il Professore. L’Italia di Berlusconi e l’Italia di Monti. Due lombardi, opposti per stile, formazione, frequentazioni che però si sono a lungo incuriositi, interessati, in qualche caso attratti. «Tra me e Berlusconi c’è un rapporto di simpatia», spiegò Monti a "l’Espresso" nel 2005. «Non abbiamo mai avuto difficoltà di dialogo nelle non numerose occasioni in cui ci siamo incontrati. È una persona di prorompente cordialità». E confessò di apprezzare le storielle dell’allora premier: «anche se sono incapace di ricordarle e di raccontarle, le barzellette mi piacciono».
Un annusamento reciproco durato più di diciotto anni, nel segno dell’Europa. Dal 1994, quando il primo governo Berlusconi nominò il rettore della Bocconi a commissario europeo, al 2004, quando il professore fu sondato per l’incarico di ministro dell’Economia al posto di Giulio Tremonti. Fino al passaggio delle consegne a Palazzo Chigi tredici mesi fa, la strana maggioranza dell’ultimo anno, con la ricorrente tentazione di Berlusconi di abbracciare il premier tecnico proponendo una grande coalizione anche per la prossima legislatura, come gli hanno sempre suggerito, arrivando alla stessa conclusione, due personaggi lontani per temperamento come Gianni Letta e Giuliano Ferrara. E invece è arrivata la rottura, le astensioni del Pdl sui decreti del governo alla Camera e al Senato che hanno avuto l’effetto di un voto di sfiducia e che hanno provocato l’ira di Monti, la salita al Colle, le dimissioni «irrevocabili» del governo dopo l’approvazione della legge di stabilità.
L’annuncio della ricandidatura di Berlusconi e l’annuncio delle dimissioni di Monti da Palazzo Chigi sono per l’appunto due non-eventi, qualcosa che ancora deve succedere. E il Cavaliere e il Professore sono candidati solo virtuali, le liste elettorali che si formeranno sono tutte da organizzare, come le alleanze. Eppure è nel loro nome che si farà la campagna elettorale, tra due Italie, il carnevale e la quaresima, come sintetizzò una volta il ministro Andrea Riccardi, l’irresponsabilità e il rigore, la festa dei folli e l’austerity. E i due, il Berlusconi scatenato che sullo spread in rialzo ostenta indifferenza («me ne frego») e che denuncia le ingerenze della Merkel sulla politica italiana e il Monti offeso e deciso a combattere in prima persona per difendere il suo operato, si sono affrontati per la prima volta a distanza sul terreno più congeniale al Cavaliere: gli studi televisivi, nei programmi di inizio giornata, di fronte al pubblico più sensibile al leader del Pdl, pensionati e casalinghe. Martedì 11 dicembre, alle nove del mattino, Monti è comparso su Rai Uno, ha parlato del nipotino che è stato soprannominato spread dai compagni di asilo, ha indossato con un gesto ieratico, come se fosse una stola, la sciarpa di Telethon e ha coperto con la stessa l’avvenente conduttrice, con un sorriso piacione. Tecnico in versione nazionalpopolare, operazione simpatia. Contrapposta alla telefonata di Berlusconi a Canale 5, tutta finalizzata a tranquillizzare l’opinione pubblica interna e europea. Con quali risultati si è visto poche ore dopo, quando dalla Germania è arrivato l’allarme contro il ritorno di Silvio.
«Ed è subito duello», ha titolato il giorno dopo il quotidiano dei vescovi "Avvenire", tra i più sfegatati tifosi di un candidatura Monti contro Berlusconi. L’anticipo, le prove generali di quello che potrebbe succedere nelle prossime settimane, soprattutto se il premier alla fine dovesse decidere di entrare direttamente in campagna elettorale con una lista che richiama il suo nome nel simbolo, guidata da Luca Cordero di Montezemolo, da un pugno di ministri, dall’area centrista e dagli azzurri in fuga dal Cavaliere. Qualunque sia la scelta finale di Monti, però, è chiaro fin da ora che l’inquilino di Palazzo Chigi giocherà un ruolo da protagonista nelle settimane che precedono il voto. Con un obiettivo preciso: fare da argine alla marea populista e anti-europeista che monta a Palazzo Grazioli e offrire un punto di riferimento a un elettorato moderato smarrito e tentato dall’astensione. Quasi un 1994 alla rovescia: all’epoca l’ingresso in politica del presidente di Fininvest devastò il centro post-democristiano di Mino Martinazzoli e Mario Segni, due politici schivi, alieni alla demagogia, che rifiutarono di allearsi con Forza Italia e con la Lega e pagarono un prezzo elevatissimo. Oggi potrebbe essere la lista Monti a strappare consensi decisivi all’ex invincibile armata di Arcore: la prima falla è stata aperta nei gruppi parlamentari, con due big come Franco Frattini e Giuseppe Pisanu che hanno votato in dissenso dal Pdl. Altri seguiranno: le due fazioni, i vetero-berlusconiani e i neo-montiani, si toccano, confinano, in Parlamento e nell’elettorato. È la vicinanza a rendere lo scontro drammatico e a richiedere che la frontiera sia ben marcata, con linee di frattura molto nette. Europeista e anti-populista, l’area Monti, sulle barricate contro il rigore tedesco, la galassia di Berlusconi. C’è l’antico Pdl, che raccoglie il grosso dell’attuale gruppo dirigente, destinato a essere diviso tra la vecchia Forza Italia e la nuova An del duo La Russa-Gasparri. C’è l’idea di una lista dei rinnovatori, guidata dal gigante buono Guido Crosetto e dall’ex ministro Giorgia Meloni che sogna di essere la Renzi del centrodestra. C’è il drappello dell’imprenditore Giampiero Samorì e c’è la lista di Vittorio Sgarbi, per non parlare del gruppo animalista messo su dall’ex ministro Michela Vittoria Brambilla. E soprattutto c’è la strategia delle alleanze variabili, diverse di regione in regione. In palio ci sono i seggi al Senato nelle tre regioni chiave, Lombardia, Veneto e Sicilia: se il Cavaliere dovesse conquistarle sarebbe pareggio al Senato.
Sogni di gloria destinati a dissolversi. Il bricolage delle liste non può nascondere lo sbriciolarsi della coalizione berlusconiana. Nel ’94 e nel 2001 l’ex premier fu un abile federatore, riuscì a mettere insieme i post-fascisti di An al Sud e i leghisti al Nord, nonostante l’odio tra i rispettivi elettorati. Oggi, invece, sta perdendo i pezzi per strada. Compreso il tassello più importante, l’unico che gli consentirebbe davvero di poter sperare nel pareggio, l’alleanza con la Lega di Roberto Maroni. Lo scambio sembrava vantaggioso per entrambi i contraenti: la candidatura dell’ex ministro dell’Interno al Pirellone, la storica conquista della Lombardia per un leghista in cambio del ritorno del Carroccio nel fronte berlusconiano. Ma da Maroni è arrivato un rifiuto: i padani non reggono il ritorno a casa sotto le ali del Padrone di Arcore.
Conclusione: per decenni la politica italiana è stata condizionata dal fattore K, il muro che impediva al Pci di andare al governo per fattori internazionali e per l’impossibilità di trovare alleati in Italia. Ora c’è il fattore B., la nuova conventio ad excludendum. Nessuno vuole più stare con Silvio, né la Chiesa che lo aveva sempre sostenuto, né l’establishment confindustriale che con lui aveva flirtato per anni, perfino Comunione e liberazione l’ha mollato. E nel Ppe, il partito popolare europeo, il palcoscenico degli sfoghi di Bruxelles del Cavaliere, lo trattano alla stregua di un Le Pen, qualcuno parla di una misura estrema, l’espulsione. Il Cavaliere è solo, come non è mai stato. «Lui vuole vincere, sempre. Anche se giocasse a calcetto nel campetto della parrocchia. Figuriamoci ora», racconta chi gli sta vicino. Ma proprio per questo, se la sconfitta dovesse essere certa, Berlusconi tiene pronta una exit strategy. L’ennesimo ribaltone, il più clamoroso, l’ha confidato a un amico: «Non posso permettere che vinca la sinistra. Se Monti dovesse davvero candidarsi contro Bersani alla guida dei moderati potrei appoggiarlo anch’io». L’ultima follia del Berlusconi isolato.