Mirella Serri, Sette 14/12/2012, 14 dicembre 2012
PERCHÉ I SAVOIA NON HANNO MAI CONQUISTATO L’ITALIA
«Vicino al suo cannone / sta fermo il soldatin. / La mira giusta ei pone / da esperto soldatin». Bum! L’obice nemico squassa la terra, dal polverone che si dirada emerge un nuovo arrivato pronto a dar man forte. Di chi si tratta? Ma del re! Già, proprio così. Il Corriere dei piccoli tira la volata all’immagine di un sovrano vicino ai suoi uomini che si trovano al fronte nella Grande Guerra. Però, forse non è un caso, quel malizioso diminutivo affibbiato ai militari evidenzia ciò che nello Stivale tutti sanno: di soldatin d’Italia ce n’è uno solo, Vittorio Emanuele III di Savoia. I giornali quando lo definiscono “Alta guida” delle operazioni incorrono in una contraddizione in termini, poiché “Sciaboletta” o “Re Tappo” raggiunge solo il metro e 53 centimetri di altezza. E anche in pieno sforzo bellico i giornali italiani parlano poco del sovrano, o lo fanno con un tono sarcastico e irridente. Se compiamo un salto di decenni e arriviamo alle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, la situazione è analoga: la parola “monarchia” si è meritata la stessa (bassina) audience del Tappo Sovrano in convegni, festeggiamenti e siti Internet, oppure è stata trattata con estrema sufficienza. «Mai nessun’altra monarchia è stata considerata con discredito come la nostra», osserva il saggista Enrico Mannucci in Casa Savoia. Ascesa e declino della più antica dinastia europea (Dalai editore).
Poca autorevolezza. Intrecciando cronaca e storia, Mannucci dà vita a una dettagliata narrazione e stabilisce in maniera innovativa una linea di continuità dall’Unità fino ai nostri giorni. Nella vicenda della famiglia reale, infatti, già con l’insediamento del re Galantuomo, Vittorio Emanuele II, si erano manifestati i sintomi di un’incapacità congenita delle teste coronate a conquistarsi aura e autorevolezza, a stabilire una sintonia con la nazione. Umberto I, conservatore, duro repressore di moti popolari, incrementerà questo fenomeno incidendo in maniera negativa sulla pubblica opinione. Nonostante i connazionali non siano bacchettoni, pure i tradimenti coniugali, consumati fin troppo apertamente, riescono a metterlo in cattiva luce. «Malgrado che siano in Roma i tre principi d’Aosta, il Re parte per Monza. È una vera aberrazione questa di correre là dalla vecchia Litta (l’amante storica di Umberto I, la duchessa Eugenia Litta, ndr) senza nessun riguardo per la Regina e per il pubblico», si lamenta il presidente del Senato che intuisce il discredito conseguente a certi comportamenti. A gettare benzina sul fuoco della disaffezione contribuisce anche il fatto di tenersi sempre a distanza, senza mescolarsi con la propria gente: «Con le poche comparse in pubblico non ha conquistato gli spettatori», commenta Edoardo Scarfoglio. Quel “tenentino con il pentolino in testa” non riscuoterà dunque nessun moto di vicinanza o di solidarietà quando con rudi maniere sarà messo all’angolo da Mussolini che lo chiama “re Bloccardo” per il fatto di trovarselo spesso tra i piedi.
Gli eredi “turbolenti”. Umberto II, fragile, privo di ogni ardimento, è assolutamente respingente. Negli anni del fascismo ruggente è però un gaudente, appassionato di bisbocce e di locali notturni – sulla bocca di tutti la sua presunta liaison con l’attore Jean Marais e con Luchino Visconti – e in esilio trasmetterà ai figli l’inclinazione a non tenere in nessun conto la pubblica opinione. Proprio per questo verso la fine degli anni Sessanta i giovani monarchici scenderanno in piazza con cartelli «Cosa intendete fare per mantenervi all’altezza dei vostri avi?». Si rivolgono agli eredi che nel dopoguerra ne combinano delle belle: Maria Gabriella, dopo infinite avventure sentimentali (notissima quella con Walter Chiari), divorzia dal marito de Balkany a seguito di “scenate violente, zuffe con calci, schiaffi, pugni e graffi”; Maria Beatrice, che avvia un discusso legame con l’esponente più in vista della cinematografia all’amatriciana e meno raffinata, Maurizio Arena, confesserà la sua frequentazione degli Alcolisti Anonimi; Vittorio Emanuele, tra rovinosi incidenti d’auto, oscuri affari, provvedimenti giudiziari (come l’accusa di omicidio volontario da cui fu prosciolto), diventerà il re-sovrano delle cronache più nere. A far scattare un certo feeling tra i Savoia e gli italiani sarà, ironia della sorte, l’ultimo arrivato, Emanuele Filiberto. Rientrato in Italia, imbocca la via della politica e fonda un partito per “Promuovere i valori legati all’Identità e alla Memoria Storica”. Poi, però, sulla competenza storica fa più di uno scivolone: «Alessandro Magno? Uno che con il suo cavallo è arrivato fino in Medio Oriente… Il periodo in cui non vorrei vivere? Il Medioevo, erano sporchi e non si lavavano. Il primo presidente della Repubblica italiana? Un passato da dimenticare, mi ricordo solo delle cose belle». Emanuele Filiberto, consapevole che la strada è impervia, inverte la rotta e, finalmente, si conquista il consenso che la Casata non si è mai meritata con il canto e la danza in tv. E la storia ancora continua.