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 2012  dicembre 14 Venerdì calendario

Biografia di Hans Christian Andersen

ANDERSEN, COME MUTARE UNA VITA TRISTE IN FAVOLA–

Ogni volta che Hans Christian Andersen si presentava a casa di Alexandre Dumas, lo trovava intento a scrivere sdraiato sul letto. Con la consueta bontà, il francese cercava di tenerlo a bada senza offenderlo. «Si sieda un momento, la mia musa è venuta a trovarmi proprio adesso. Non tarderà ad andarsene!». Poi continuava a lavorare, finché l’ispirazione non si era esaurita.
Il vizio di Andersen di irrompere, senza chiedere un appuntamento, in casa di colleghi più o meno conosciuti era imbarazzante. Come il brutto anatroccolo della sua fiaba, anche lui cercava di intrufolarsi nelle case altrui evitando ogni possibile rifiuto. A volte però la manovra non riusciva, com’era successo con i fratelli Grimm. «Sono venuto senza lettere di presentazione, perché spero che il mio nome non le sia del tutto ignoto!». «Chi è lei?... no, non credo di averlo mai sentito. Che cosa ha scritto?». Ma, anche dopo avere sentito le opere dell’intruso, Jacob Grimm aveva replicato: «Non le conosco! Ma mi dica un’altra sua opera, l’avrò sentita nominare di certo».
Sarebbe stata una lezione, se Andersen fosse stato in grado di accorgersene, ma per tutta la vita aveva cercato sempre, ostinatamente, malgrado le derisioni e il ridicolo, di farsi riconoscere da chi era più affermato o socialmente più elevato di lui. Per questo non si stancava mai di declamare in pubblico le sue favole o di parlare delle sue opere.
La stranezza del suo fisico rendeva ancora più inquietante la sua apparizione. Andersen era molto alto per l’epoca, un metro e ottantacinque, e sempre un po’ curvo. Aveva «il viso pallido come quello di Werther, il naso possente come un cannone, gli occhi minuscoli come piselli». Cercava invano di equilibrare la sproporzione dei tratti con l’inseparabile, altissimo cilindro. Malgrado la gloria universale, il brutto anatroccolo era riuscito soltanto a diventare un brutto cigno.

L’incontro con Dickens. L’episodio più imbarazzante era stato quando, invitato da Charles Dickens a passare una notte da lui, si era fermato per cinque settimane. I due scrittori avevano in comune un’infanzia povera e un’attenzione costante ai più deboli. Però niente era più diverso dalla radiosa personalità di Dickens della morbosa sensibilità di Andersen. In privato, il favolista che sapeva piacere ai sovrani di tutta Europa era nevrotico, sgradevole e inconsapevolmente egocentrico. Il risultato era stato riassunto dal cartiglio che il romanziere aveva fatto mettere sulla porta della stanza dell’ospite poco gradito. «Qui Andersen ha soggiornato per cinque settimane, che alla famiglia sono sembrate cinque secoli». Un’eco di quella sgraziata presenza riaffiorò nel ritratto di Uriah Heep, il viscido, emaciato personaggio di David Copperfield. E Andersen doveva averlo sospettato se gli aveva scritto: «Dimentica, amico, il mio lato oscuro che l’eccessiva vicinanza potrebbe averti illuminato. Vorrei tanto vivere nel ricordo di una persona che ho amato come un amico e un fratello».
Quando finalmente era partito, Dickens lo aveva accompagnato per essere certo che, nella sua inettitudine, non tornasse indietro. Infatti quando gli aveva consigliato di portarsi dietro un foglio con l’indirizzo di casa, Andersen, non sapendo l’inglese, aveva diligentemente copiato la scritta «Non affiggere manifesti al muro», e avevano dovuto recuperarlo dalla polizia che lo aveva creduto pazzo.
Per quel gigantesco bambino tutte le conoscenze si convertivano in nuovi fratelli, sorelle o genitori che impedivano alla sua «morbosità spirituale di prendere il sopravvento». Quando voleva affascinare dei bimbi, Hans Christian piegava un foglio colorato e con pochi colpi di forbice ne estraeva cigni, angeli e castelli.
Se Andersen non si sposò mai, non fu per la sua povertà, presto superata, ma per un’incertezza sessuale che lo portava a corteggiare platonicamente uomini e donne. «I miei sentimenti per te sono quelli di una donna, la femminilità della mia natura e la nostra amicizia devono rimanere un mistero», aveva scritto a un giovane amato. Quell’ambiguità però non gli aveva impedito di soffrire profondamente per una giovane donna che aveva sposato un altro – «Aveva un viso adorabile, come quello di una bambina» – al punto da portarsi sempre dietro, in una busta di pelle appesa al collo, una sua lettera. Invece con l’“usignolo svedese”, una seducente cantante lirica, si era presto stabilito un rapporto fraterno. Sembra che Andersen non sia mai riuscito a concretizzare i suoi impulsi, nemmeno, ormai sessantenne, in un postribolo di Parigi. «Sono andato in un mercato della carne: una di loro era incipriata, un’altra era una popolana, una terza una signora. Io le ho parlato, ho pagato dodici franchi e me ne sono andato, senza avere peccato con le azioni, anche se oso dire di averlo fatto col pensiero. Lei mi ha chiesto di tornare, dicendo che ero davvero molto innocente per essere un uomo».
Quando doveva passare per Odense, dove era nato, ci rimaneva il meno possibile. «Mi ci sentivo più spaesato che nelle più grandi città tedesche». Solo tardivamente quella cittadina, che aveva commentato con acredine la sua ascesa, decise di onorarlo con una cerimonia pubblica. La vigilia della «festa più bella della mia vita», Hans Christian non aveva dormito, tormentato da un senso di inferiorità e da una serie di dolori psicosomatici.

Una famiglia dissestata. La mesta storia della sua infanzia resisteva caparbiamente al suo tentativo di trasformarla, se non in fiaba, almeno in un sereno preludio. Certo nella sua autobiografia aveva trasfigurato quell’unico locale, in cui si stipava la famiglia in una casupola gialla di Munkemollestraede, in una zona insalubre della cittadina. «C’erano stampe sui muri e belle coppe, vetri, soprammobili sul comò, e sopra il tavolo da lavoro, vicino alla finestra c’era uno scaffale pieno di libri e di poemi. La porta, con i pannelli decorati da paesaggi per me era come una galleria di quadri!».
In quella luce fittizia il padre, un calzolaio depresso, capace di restare lunghe ore in silenzio e pronto ad abbandonare la famiglia per arruolarsi nell’armata napoleonica, pensava solo ad adorare quel figlio prodigio. La madre, una lavandaia alcolizzata che considerava pazzo quel bambino sgraziato per gli strani racconti che le faceva, diventava una mamma piena di fede nel futuro di Hans Christian. Per non parlare del nonno pazzo o della zia materna, tenutaria di un postribolo a Copenhagen, o della sorellastra, prima prostituta e poi lavandaia come la madre. Meno male che la nonna raccontava di discendere da una nobile famiglia, che aveva ripudiato sua madre perché era fuggita con un attore.
Il favolista preferiva addensare tutta la negatività sul mondo esterno, lontano da quella povera anatra che aveva onestamente covato l’uovo di un cigno. Preso in giro dagli altri ragazzi, Hans Christian preferiva passare il tempo a mettere in scena drammi immaginari o a cucire abiti ai burattini di fortuna con qualche avanzo di stoffa. Un passatempo che aveva fatto sperare ai suoi di farne un sarto. Ma quel bambino dai piedi troppo lunghi era deciso a diventare famoso in qualsiasi modo. Per questo a quattordici anni, dopo qualche disastrosa esperienza di lavoro, aveva tentato l’avventura partendo per Copenaghen.
Il momento tumultuoso del suo arrivo nella capitale, sconvolta da un pogrom antisemita, aveva ritardato la presa di coscienza della sua miseria. L’abito, che sua madre aveva ricavato da un vecchio cappotto del padre, lo faceva scambiare per un mendicante. Mentre la voce da soprano, su cui aveva puntato per emergere, stava perdendo smalto, la singolare statura, la presunzione, il tono effeminato, uniti alla mania di declamare alla prima occasione le sue pagine, lo rendevano un facile bersaglio. «Cercherò di non ridere, ma è quasi impossibile visto il suo comportamento grottesco», disse una conoscente incontrandolo.
Alla fine la sua ostinazione e le sue innegabili doti gli avevano trovato dei protettori. Grazie a loro aveva potuto studiare colmando vari vuoti, dall’ortografia alla cultura generale, fino all’educazione che i suoi non avevano potuto dargli. Tuttavia il prezzo da pagare era stato salatissimo. Aveva dovuto sopportare la ruvidezza dei maestri e inserirsi in classi in cui gli altri alunni, di sei anni minori di lui, deridevano la sua estrema vulnerabilità. «Sono come l’acqua, tutto mi turba e si riflette in me».

La scrittura come vocazione. Naufragati i sogni di salire sul palcoscenico, aveva optato per la scrittura e sfornava un dramma dopo l’altro. Era bastato che un conoscente lo definisse un poeta per scoprire la sua vocazione. «Mi trapassò l’anima ed il corpo, e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Sapevo che, da questo momento, la mia mente si era risvegliata alla scrittura e alla poesia». Ma, per raggiungere la fama, aveva dovuto scrivere L’improvvisatore, la storia fitta di note personali dell’ascesa di un ragazzo povero. Adalbert von Chamisso lo aveva definito «dotato di bizzarria ed umorismo, unito a un’ingenuità popolaresca». Meno indulgente, Soren Kierkegaard aveva criticato l’autocommiserazione diffusa nelle sue pagine e molti contemporanei si scandalizzavano dell’ambiguità e del sadismo di alcune sue fiabe.
Solo dopo i trent’anni Andersen era entrato nella “primavera della vita”. «Ogni cosa superava le mie più audaci speranze, i miei sogni di gioventù» e aveva paura di svegliarsi un giorno da quel «sogno di superbia». A volte l’incubo sembrava avverarsi come quando a Copenaghen era stato additato da due passanti: «Guarda, c’è il nostro urang outang così famoso all’estero!» Poi altri riconoscimenti attutivano quegli insulti e il bilancio tornava positivo. «Anche dal male mi è venuto il bene, dai dolori la gioia… mi sento davvero un beniamino della fortuna... per quante ingiustizie credessi di patire, ogni duro colpo subìto durante il mio sviluppo alla fine si è rivelato benefico». Però il successo non aveva risolto i suoi problemi finanziari perché in Danimarca, malgrado tutto, gli editori lo consideravano poco.

Ricco ma in fuga dal passato. Spesso le favole dedicate alla povertà, come La piccola fiammiferaia, nascevano durante i soggiorni nei palazzi più fastosi, come se Andersen avesse bisogno dello scudo di quel lusso per affrontare la Medusa del suo difficile passato. Ma le ferite erano troppo profonde perché l’uomo che prendeva la «cioccolata con la regina, seduto allo stesso tavolo, davanti a lei e al re», potesse davvero guarirne.
Intanto i viaggi e la fama gli permettevano di conoscere persone nuove, di scrivere apprezzati resoconti delle sue peregrinazioni. Alta e stretta, la casa che aveva abitato a Roma, in via Sistina 104, all’angolo con via Crispi, gli somigliava curiosamente. «Ho trovato questa piccola stanza sotto il tetto, da qui posso vedere tutta Roma».
Come l’eroina di Scarpette rosse, Andersen sembrava condannato a non fermarsi mai, in un’incessante fuga dal passato, dai suoi nemici e dalla morte in agguato. Nella sua valigia c’era sempre una fune per calarsi dalla finestra in caso d’incendio. Uno dei suoi timori più grandi era quello di essere sepolto vivo. Quindi, prima di addormentarsi lasciava un biglietto con sopra scritto: «Non sono veramente morto». Soltanto nel 1866, cedendo alle pressioni degli amici, si era comprato qualche arredo e un letto, protestando: «Sarà il mio letto di morte». Un timore che risaliva alla sua infanzia perché il letto dei genitori, ricavato dal catafalco funebre di un nobile, aveva ancora le lugubri guarnizioni di velluto nero.
Ormai abitava nella piazza più bella di Copenaghen, Piazza Nuova del Re, di fronte al Teatro Reale, dove da adolescente aveva subìto tante umiliazioni. Erano solo due stanze «confortevoli, soleggiate, abbellite da quadri, libri, soprammobili» e dai fiori portati dalle amiche. Ma Hans Christian cercava di starci il meno possibile e cenava ogni sera da una famiglia diversa, cui leggeva ad alta voce quello che aveva appena scritto. Riuscì a morire in compagnia, in casa di ricchi amici a Villa Rolighed, che in danese significa quiete. «È meraviglioso a questo mondo avere degli amici così».
Effettivamente era successo quello che aveva sempre temuto: si era fatto male cadendo dal letto.
Giuseppe Scaraffia