Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  dicembre 14 Venerdì calendario

«I FILM IMPEGNATI? PIÙ CHE CINEMA SONO TELEGIORNALI»


[intervista a Giuseppe Tornatore]

Lo incontro in una stanzetta anonima a pochi passi dallo studio dove sta perfezionando La migliore offerta, storia d’amore “gialla” con Geoffrey Rush che uscirà il 1° gennaio. Giuseppe Tornatore, 56 anni, siciliano, si guarda intorno: «Sembra la sala colloqui di un carcere». Barba incolta, capelli in disordine. Replica a qualsiasi provocazione con un sorriso. Quando gli ricordo le critiche al suo Baarìa nate anche dal fatto che il film era distribuito dalla berlusconiana Medusa, dice: «Sarebbe bello tornare a discutere del merito delle cose e non spaccare il Paese in due fazioni: da una parte i disonesti stupidi e dall’altra gli onesti intelligenti». Tornatore ha un passato da militante del Pci ed è considerato un regista de sinistra. Ma, a differenza di molti colleghi impegnati, non ha mai girato una pellicola ispirata ad avvenimenti socio-politici contemporanei (a parte il suo esordio con Il camorrista). Glielo faccio notare. La replica: «È una scelta. Considero fragile il metodo di chi fa un film perché lo impone l’attualità».
È il metodo di molti registi engagé.
«Lo so, lo so».
Lei come sceglie che cosa girare?
«Aspetto di essere sicuro che comunque vada manterrò un rapporto positivo con la storia. Lavorare a un film solo perché riguarda temi socialmente di moda mi darebbe la sensazione di ridurre la potenzialità del cinema a quella di un telegiornale».
È vero che quando incontra i produttori porta con sé una rosa di storie e lascia scegliere a loro?
«Sì. E capita anche che non venga scelta la migliore delle proposte. Come quando portai La sconosciuta a Giampaolo Letta».
È vero anche che gira film a cui ha cominciato a lavorare venti anni prima?
«È successo anche con quest’ultimo, La migliore offerta. Ha la genesi più bizzarra di tutti i miei lavori».
E cioè?
«Quando sono arrivato a Roma nel 1984 un amico mi raccontò di un problema psicologico di sua sorella. Ho lavorato a una ventina di soggetti partendo da questo punto. Ma non ne ha mai funzionato nemmeno uno. Qualche anno fa, una casa d’aste mi ha inviato un catalogo. Ho cominciato a pensare alla storia di un battitore, ma, anche lì, non riuscivo a far quadrare il racconto. Poi, mentre mettevo ordine nel computer, la storia della ragazza e quella del battitore sono finite una accanto all’altra. Ho sentito che si attraevano. Le ho intrecciate come si fa in musica con il contrappunto doppio, ed è venuta fuori una nuova storia».
Quanti soggetti cinematografici elabora ogni anno?
«Tanti. Scrivo tutte le mattine un’ora prima di andare sul set e ogni giorno quando non giro».
La storia che ha visto al cinema e avrebbe voluto realizzare?
«Una giornata particolare di Ettore Scola».
La storia che i produttori non le hanno mai fatto girare?
«Quella di Ulisse raccontata dal punto di vista di Penelope. Immagino che ci fossero un po’ troppi problemi produttivi».
Sarebbe una fiction perfetta per la tv, a puntate.
«Non lo farei mai».
Lei ha fatto alcuni spot. Non girerebbe anche una fiction?
«Me ne hanno proposte molte. Ma ho sempre rifiutato».
Per snobberia?
«No. Se la storia da raccontare imponesse più puntate accetterei il format. Ho sempre sognato di portare sullo schermo I Beati Paoli. È un romanzo d’appendice sulla massoneria settecentesca. La snobberia non mi appartiene».
Ha mai visto un cinepanettone?
«Certo. Più generi si vedono e più si allena la propria capacità di giudizio. Ho fatto lodi sperticate ad Avatar, film che ubriaca».
Le è capitato di trovare difetti nella proiezione di un suo film in sala?
«Capita continuamente. L’audio, la luminosità...».
Lei va sempre a vedere i suoi film?
«Appena escono, mi affaccio a spettacolo iniziato e mi nascondo nel buio per ascoltare la sala. Dai rumori si capisce molto».
Un esempio?
«Quando entrai al cinema Barberini durante la proiezione del Pianista sull’oceano capii che funzionava perché c’era un silenzio sacro. Ma succede anche di intercettare la delusione, eh».
Racconti, racconti.
«La prima volta che è uscito Nuovo cinema Paradiso m’infilai all’Ariston, a Roma. In sala c’erano 5 persone. Uscii e la cassiera mi disse: “Film bello. Ma non lavora”. A fine proiezione andai dai ragazzi che l’avevano visto, fingendo di decidere se entrare. Chiesi: “Com’è?”. Uno sentenziò: “Una merda”. Capito?».
Leggenda vuole che il film venne salvato grazie a un ri-montaggio voluto dal produttore Cristaldi. Così vinse l’Oscar.
«Le cose non andarono così. Sto scrivendo un libro per Einaudi in cui racconto esattamente come è andata».
Lei ha fama di essere maniacale nella cura dei particolari.
«Me lo ha detto anche Pupi Avati quando gli ho raccontato che durante le riprese di Baarìa mi sono accorto che le scarpe delle 200 comparse femminili di una scena corale erano dello stesso modello. Non l’avrebbe notato nessuno, ma gliele ho fatte cambiare».
Meticoloso e, si dice, scaramantico.
«Non comincio a scrivere e non consegno mai una sceneggiatura di martedì o di venerdì. Il giorno prima di battere il primo ciak mi taglio i capelli a zero. Non tollero il viola sul set, mi fermo se passa un gatto nero e tremo all’idea che qualcuno dopo un brindisi posi il bicchiere sul tavolo prima di aver bevuto. Quando mi chiedono chi è il regista del futuro, evito di rispondere, per non portargli iella».
Chi è il regista del futuro?
«Che fa, provoca?».
Mi dica il nome di uno bravo, uno che le piace.
«A parte Garrone e Sorrentino? Giorgio Diritti che ha girato L’uomo che verrà, e Costanza Quatriglio che ha fatto Terra Matta».
L’attore più promettente?
«Francesco Scianna».
È il protagonista di Baarìa! Non vale.
«Vale, vale. Sta lavorando molto e ha grandi potenzialità».
L’attrice?
«Prima o poi vorrei lavorare con Jessica Chastain».
Le hanno mai offerto di trasferirsi a Hollywood?
«Sì, più di una volta. Ho rifiutato progetti che non sentivo miei».
Che cambierebbe del cinema italiano? Se potesse fare qualcosa.
«Cercherei di dare il coraggio di articolare il più possibile il proprio ventaglio narrativo».
C’è un ostacolo da rimuovere?
«Si è sempre cercato di produrre solo i film che incassavano e di spremere i filoni di moda, trascurando il resto. Ora il nostro arco espressivo è composto dai film comici e sperimentali. Un cinema sano ha in sala, insieme, cinema impegnato, d’invenzione, il giallo, il romantico, il comico… La nostra pigrizia/furbizia produttiva sta travolgendo a cascata autori, sceneggiatori e pubblico, che vedendosi offrire poco preferisce buttarsi sul cinema americano».
Lei ha dichiarato che spesso i governi sono nemici del cinema.
«In Italia lo sono storicamente. Ora è passato pure il messaggio per cui si merita aiuti di Stato chi incasserà. Ma sono i giovani che non si sa se incasseranno ad avere bisogno di finanziamenti».
Lei, militante democratico, da un governo Bersani si aspetterebbe più soldi per il cinema?
«Mi aspetterei che continui le politiche di rigore, ma che cominci a parlare con gli italiani tartassati. E mi piacerebbe che non facesse l’errore tradizionale della sinistra».
Quale sarebbe?
«Non confrontarsi con chi ha idee diverse».
D’Alema e Veltroni dovrebbero fare un passo indietro?
«No. Sono risorse importanti».
Lo dice perché sono anche suoi amici?
«È stato un errore dipingere Renzi come l’arrivista lontano dall’ortodossia, sarebbe un errore anche non mettere a frutto tutte le energie che il Pd ha a disposizione».
A cena col nemico?
«Con Goffredo Fofi».
Fofi ha coniato l’espressione “tornatores”, per etichettare il cinema che non apprezza, quello di Salvatores e di Tornatore.
«Lo stimo molto come critico letterario, meno come critico cinematografico».
Ha un gruppo di amici?
«Sempre più ristretto. Morricone, Francesco Rosi, Ettore Scola… e Massimo De Rita».
Si dice che De Rita sia l’unico sceneggiatore di cui si fida.
«Con gli altri non sono a mio agio. Ho sempre fatto tutto da solo, anche i compiti alle elementari».
Con De Rita ha scritto la sceneggiatura del colossal Leningrad. È vero che nel 2013 comincerete le riprese?
«Può darsi. Ne stiamo discutendo coi produttori americani. Meglio non parlarne. Scaramanzia. Aggiungo un amico: Giovanni Malagò».
L’imprenditore presidente del Circolo Aniene?
«Del Circolo sono socio onorario, ma non ci vado mai».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Rinunciare a un posto fisso. Quando lo dissi a mio padre, rimase sconcertato».
È vero che lei a inizio carriera girava i filmini dei matrimoni e delle prime comunioni?
«Foto e film. Con ciò che guadagnavo mi finanziavo documentari».
L’errore più grande che ha fatto?
«Non essermi trasferito a Roma prima».
Ha mai pensato di trasferirsi in America?
«Certo. Ma poi ho sempre rifiutato le offerte ricevute».
Che cosa guarda in tv?
«Faccio zapping, 5 minuti due volte a settimana. Ticchetetacchete».
Il film preferito?
«Costretto a scegliere? Quarto potere di Orson Welles».
Il libro?
«Cent’anni di solitudine».
La canzone?
«Il nostro concerto di Umberto Bindi».
Sa quanto costa una canzone su iTunes?
«Poco meno di un euro. Mi è capitato di comprare alcune colonne sonore: sono un collezionista».
Conosce l’articolo 12 della Costituzione?
«Uhm… Mi faccia pensare un minuto».
Non si può. È quello che descrive il Tricolore.
«L’ho messo in primo piano in molti film».
Sa quali sono i confini della Striscia di Gaza?
«Glieli posso dire domani?».
Vittorio Zincone