vari autori (vedi testo), Sette 14/12/2012, 14 dicembre 2012
ANCH’IO HO DIRITTO AL POSTO. NELL’ASILO NIDO
PERCHÉ MI LASCIATE FUORI?
[vari pezzi]
Nei primi Anni Settanta i bambini di Bianco, nel cuore della Locride, erano dei privilegiati. Mentre nel resto d’Italia i coetanei, da 0 a 3 anni, combattevano senza saperlo per avere un luogo sicuro dove stare quando papà e mamma lavoravano, questi piccoli calabresi godevano già del “modello scandinavo”. C’era una volta, infatti, in questo paesone di 4.300 abitanti sulla punta dello stivale, un “nido” italo-svedese che rispondeva ai più moderni criteri educativi per la prima infanzia e si conquistò pure gli elogi del presidente Saragat, durante una visita che gli anziani ricordano con orgoglio, “si affacciò al balcone e ci salutò tutti”.
L’“asilo svedese” di Bianco ha chiuso da tempo. Comprato dal Comune negli Anni Ottanta, oggi ospita un consultorio familiare, la sede del 118 e altri servizi. Il nido pubblico non c’è. Ne hanno aperto uno privato, ma gran parte dei bimbi sotto i 3 anni resta a casa con nonne o parenti e al limite, se riesce, s’infila alla materna in anticipo. Succede spesso, nel Mezzogiorno.
Pochi asili, al Sud il vuoto L’ultimo rapporto Istat sull’offerta comunale di asili nido, diffuso quest’anno, fotografa un’Italia in netto ritardo rispetto agli altri Paesi europei e che offre a bambini e bambine diritti molto diversi a seconda che nascano nel centro storico di Torino o a Palermo. Le percentuali di copertura sono lontane dall’obiettivo fissato a suo tempo dall’Unione europea: almeno 33 bambini su 100 avrebbero dovuto trovar posto in un nido entro il 2010. Quell’anno, però, in Italia appena l’11,8% dei piccoli “residenti” tra 0 e 2 anni hanno frequentato un asilo nido comunale o strutture private convenzionate con il settore pubblico, con punte del 16,8% al Nord-Est e minime del 3,3% al Sud. A queste cifre si aggiungono i cosiddetti servizi integrativi (spazi gioco, centri per le famiglie, servizi domiciliari) e i nidi privati tout court che spuntano qua e là sul territorio. Secondo le stime del Collegio degli Innocenti di Firenze, aggiornate a fine 2011, si arriva così al 18,9% di media nazionale e si scopre che in Emilia Romagna, Toscana e Umbria si superano i 30 posti per 100 bambini nei nidi d’infanzia e servizi integrativi, segue la Liguria con oltre 28, ma Mezzogiorno e isole sono fermi a meno del 10%. Non basta a riempire il vuoto, che la crisi rischia di dilatare ancora di più. E le famiglie sono sempre più sole.
Mancano i fondi, e la volontà «Lo Stato italiano è sordo, il nostro è l’unico Paese europeo che non ha un capitolo nella Legge di stabilità a beneficio dei servizi dell’infanzia, scaricati completamente sulle spalle di Regioni e Comuni. Un’anomalia assoluta», denuncia Lorenzo Campioni, pedagogo e presidente dell’associazione Gruppo Nidi Infanzia. Troppo pochi i posti disponibili, troppo lunghe le liste d’attesa, troppi i bimbi lasciati fuori dalla porta. «Se lo Stato impegnasse una quota di 600-700 milioni l’anno, riusciremmo ad aggiungere almeno un punto percentuale all’offerta degli asili nido». Significherebbe trovare un posto a qualche migliaio di piccoli e rimettere in moto anche l’occupazione femminile, diretta e indiretta. Le risorse necessarie, secondo Campioni, sono già disponibili, senza imporre ulteriori gravami: «Ricordate le dichiarazioni dei ministri Brunetta, Carfagna, Giovanardi? Quando ci fu l’innalzamento dell’età pensionabile per le donne del pubblico impiego dichiararono che una quota consistente dei fondi risparmiati sarebbero andati a beneficio della costruzione di nidi e servizi integrativi. Poi si potrebbe attingere, per una quota minimale, ai risparmi derivanti dal taglio dei costi della politica».
Le iniziative del governo La realtà è molto più deprimente. Solo lo 0,15% del Pil è destinato a interventi diretti alla primissima infanzia e le liste di attesa restano lunghissime: il 25% delle richieste non è esaudito, secondo i dati raccolti da Paola Profeta nel saggio Donne in attesa. «L’unico segnale del governo Monti sono stati due decreti estremamente ambigui. Il primo di 25 milioni, il secondo di 45: soldi presi dal Fondo per la famiglia, che devono essere spesi dalle Regioni sia per la non autosufficienza degli anziani sia per i servizi 0-3 anni», conclude Campioni. Tutti gli operatori rimpiangono e invocano un nuovo Piano straordinario come quello varato dal governo Prodi con la Finanziaria del 2007 – oltre trent’anni dopo la legge 1044 che nel 1971 diede il via alla rete dei nidi – che destinò 446,46 milioni di euro al loro sviluppo (cui se ne aggiunsero circa 85 nel 2010) e impose alle Regioni di versare una quota aggiuntiva del 30%. Da allora, si sono succedute solo sporadiche iniziative governative, spesso dal sapore un po’ estemporaneo. Il ministero per le Pari opportunità, quando era retto da Mara Carfagna, investì sul modello delle Tagesmutter – asili domestici gestiti da mamme – sollevando molte polemiche sulla mancanza di preparazione specifica delle educatrici. Il 25 ottobre scorso, il ministro Elsa Fornero, con delega alle Pari opportunità, ha sottoscritto in sede di Conferenza Unificata Stato-Regioni-Città e Autonomie locali, la nuova Intesa Conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per il 2012, stanziando 15 milioni di euro del proprio Fondo, che si aggiungono ai 40 milioni di euro dell’edizione 2010: «Tra le molte e diverse azioni realizzate tra il 2011 e l’anno in corso, una parte importante spetta alle strutture per l’infanzia», fa sapere una nota del Dipartimento. «A oggi sono stati potenziati o realizzati ex novo 832 servizi: in prevalenza nidi d’infanzia (448) ma anche servizi educativi in contesti domiciliari (331) oltre a spazi ricreativi». Iniziative lodevoli, ma insufficienti. Tra gli ultimi progetti annunciati dalla Fornero, figura anche un contributo di 300 euro al mese, per un massimo di sei mesi, che potrà essere utilizzato per baby sitter e asili nido dalle madri lavoratrici per «favorire il rientro nel mondo del lavoro al termine del congedo obbligatorio di maternità». Iniziativa con rigidi paletti: innanzitutto, un plafond di 20 milioni di euro l’anno per tre anni che basterà per poco più di 11 mila madri lavoratrici. Madri che dovranno rinunciare al congedo facoltativo, cioè ai sei mesi di aspettativa con stipendio al 30% utilizzabili fino al compimento dei tre anni del bambino. Briciole, insomma, che non convincono gli esperti.
Un’opportunità di crescita «Manca un disegno coerente di diffusione di servizi per la prima infanzia, in tutto il Paese», lamenta Aldo Fortunati, direttore dell’area educativa del Collegio degli Innocenti di Firenze, che sottolinea un dato: quei 5 bambini su 100 che in Italia frequentano la scuola d’infanzia (la “vecchia” materna) come anticipatari, cioè prima di compiere i 3 anni. Concentrati soprattutto nel Sud, sono in costante aumento. Un escamotage che colma la carenza di strutture ad hoc. In Calabria, quasi 35 bimbi su 100, tra quelli nati nel 2008, si sono iscritti alla materna a due anni, nel 2010.
Soluzione non ideale se si riconosce il valore socio-educativo del nido d’infanzia, confermato dalle scienze psicopedagogiche oltre che da tre sentenze della Corte Costituzionale. Non un “parcheggio” o un servizio assistenziale per madri lavoratrici, ma un luogo dove il bambino può relazionarsi e imparare. «È evidente che il tasso di occupazione femminile è speculare alla diffusione dei servizi per l’infanzia: in Sicilia le donne hanno livelli di partecipazione al lavoro pari al Pakistan anche perché mancano i nidi», dice Francesca Puglisi, responsabile Scuola della Segreteria nazionale Pd. «D’altra parte, il nido è un servizio ormai richiesto anche da famiglie che potrebbero tenere i bambini a casa, proprio perché convinte che esso rappresenta una migliore opportunità di crescita rispetto a baby sitter o nonni». Lo conferma uno studio della Fondazione Agnelli, che conclude: «L’aver frequentato il nido aumenta in modo considerevole la probabilità di ottenere buoni punteggi nella scuola primaria, ma anche alla scuola media e superiore. Effetti positivi che sono maggiori per i bambini che provengono da famiglie con più bassi livelli d’istruzione».
«Il tempo dei genitori è sempre fondamentale, soprattutto nel primo anno di vita, ma un congedo parentale pagato il 30% ce lo possiamo permettere in poche. Per questo, invece di proporre un voucher che incentiva a tornare subito al lavoro, si dovrebbe cercare di aumentare la cifra del congedo facoltativo», sostiene Silvia Pasqua, ricercatrice in Economia dell’Università di Torino e coautrice della ricerca. «Dal primo anno di vita, poi, la sostituzione del tempo materno con il tempo della scuola non fa danno a nessun bimbo ed è un grande vantaggio per chi parte da situazioni svantaggiate. Il problema è che il nido non c’è».
Optional o servizio essenziale? Il nido in Italia rientra ancora nella famigerata categoria dei servizi a domanda individuale per i quali è obbligatorio ottenere un rientro delle spese attraverso contribuzioni e rette a carico dell’utenza. La programmazione è affidata alle Regioni che decidono in modo autonomo e a volte molto fantasioso le “regole del gioco”, come ricettività minima e massima, metri quadrati per utente (5 in Abruzzo, 10 a Trento), rapporto numerico fra insegnanti e bambini (in Piemonte si arriva a 1 a 10, in Valle d’Aosta è di 1 a 6), condizioni minime necessarie per aprire un nido privato (in Basilicata e Sicilia non è previsto alcun titolo di studio per i contesti domiciliari). Uno dei punti critici del sistema è proprio l’outsourcing, l’inesorabile processo di esternalizzazione del servizio pubblico. «Nell’attuale situazione di crisi, con i tagli ai bilanci comunali e il Patto di stabilità interno che limita il turnover del personale, anche chi ha una buona dotazione di asili nido sul territorio fatica a mantenerli aperti», sostiene Francesca Puglisi. Aumenta così il ricorso al project financing: il Comune possiede l’edificio e lo dà in gestione a una cooperativa esterna. Con grossi rischi. Nel sistema degli appalti vince chi ha il prezzo più basso e questo si ripercuote sul servizio, per esempio attraverso l’impiego di educatori con contratti a tempo determinato e stipendi minimi.
Dare il servizio in gestione ai privati non è necessariamente un male, secondo Aldo Fortunati: «Oggi siamo già in una situazione mista. In Toscana sono più le unità di offerta a titolarità privata di quelle a titolarità pubblica. Ma se si vuole diffondere realmente un servizio di questo tipo, la mano pubblica deve fare la sua parte. Il disegno di legge delega sul federalismo fiscale, che troverà prima o poi attuazione, definisce i servizi all’infanzia come “fondamentali”, tanto quanto i servizi scolastici del segmento dell’obbligo. Secondo i dati Istat, oggi i Comuni spendono circa 1 miliardo e mezzo di euro all’anno per la gestione dei nidi, sia quelli propri sia quelli privati convenzionati. Di questa cifra, solo il 18% rientra dalle rette che pagano le famiglie. In un nido privato non sovvenzionato dal contributo pubblico non entrerà mai il bambino di una famiglia con scarso potere contributivo e meno che mai un bambino disabile. Ecco perché è necessario che il governo si assuma la responsabilità di stabilire regole valide in tutto il Paese ma anche l’onere del finanziamento del sistema per renderlo accessibile in forma generalizzata ed equa».
Qual è la copertura necessaria in Italia? Le liste d’attesa in questo momento si sono un po’ allentate perché la crisi economica mortifica in erba il desiderio di accedere al servizio nidi: se un nucleo familiare perde uno dei due redditi o se il reddito della madre è minimo, spesso alla donna conviene rimanere a casa con il bimbo, considerati i costi di asili e baby sitter. Analisi che trova conferma in una ricerca della provincia di Reggio Emilia: qui, 3 donne su 10 si dimettono dopo il parto e ogni 10 neomamme che tornano al lavoro due si dimettono dopo il primo anno del figlio. Peraltro, la lista d’attesa è più lunga proprio dove i nidi sono più diffusi, a dimostrazione che la domanda è fortemente sollecitata dall’offerta e dall’effetto imitazione. «L’obbiettivo del 33% è in realtà insufficiente. In base alle esperienze locali, il livello di copertura che garantisce l’equilibrio fra domanda e offerta è intorno al 50-55%», conclude Fortunati. Non ci arriveremo presto, anzi potrebbero svanire sperimentazioni di successo. Come le Sezioni Primavera create all’interno di alcune materne per accogliere bimbi di 24-36 mesi: «Quest’anno non hanno più il finanziamento della Pubblica istruzione perché i 12 milioni previsti sono stati messi altrove», denuncia il Gruppo Nidi Nazionale.
I bambini costano, gli aiuti servono. «In Italia però c’è sempre una gran confusione fra politiche sociali e politiche educative. In altri Paesi europei esistono serie politiche di sostegno alle famiglie con bambini, a prescindere dal reddito. Da noi, invece, le politiche sono perlopiù un sostegno alla povertà, vedi gli assegni familiari. Eppure non sono solo le famiglie povere ad avere bisogno d’aiuto», denuncia Silvia Pasqua. «I nidi pubblici, per esempio, hanno rette proporzionali al reddito. Il problema non è economico, è che non ci sono i posti». Il modello resta ancora la Svezia. Lì non solo ci sono posti al nido per tutti ma anche politiche di conciliazione per la famiglia estremamente flessibili. In Italia, invece, le famiglie si arrangiano. Ma cosa succederà ora che le nonne cominciano ad andare in pensione a 70 anni e non possono più accudire i nipoti? Le donne non faranno più figli? Torneranno tutte a casa? O forse dovranno sperare di venire assunte dalle (poche) aziende che offrono il nido per i figli dei dipendenti. Avveniva nel villaggio operaio di Crespi d’Adda, a fine Ottocento.
Sara Gandolfi
USA–
L’unico programma federale Usa pre-scolastico, Head Start (creato dal presidente Johnson nel 1965), copre solo i figli dei più poveri e dà pessimi risultati. Per il resto solo 6 Stati (New York, Illinois, Florida, Georgia, Oklahoma, West Virginia) offrono un sistema pubblico (comunque limitato) per i bimbi dai 3 ai 5 anni. Gli altri danno solo qualche contributo che varia con le esigenze di bilancio (l’Arizona ha azzerato tutto). A New York iscrivere un bimbo a un kindergarten privato costa 15-20 mila dollari l’anno per un istituto medio, per i migliori si arriva a 30-35 mila. Risultato: secondo l’Ocse (dati 2008) solo il 47% dei bimbi Usa frequenta scuole materne e asili.
(M. G.)
GRAN BRETAGNA–
La politica di sostegno alla famiglia è stata uno dei cavalli di battaglia di David Cameron. Nonostante l’austerità abbia imposto tagli pesanti al welfare, il governo ha cercato di non toccare i fondi per le “nursery school” (gli asili pubblici a cui hanno diritto di accesso tutti i bambini fino a 5 anni). Poi da pochi mesi è stata introdotta una novità. La nuova legge sulla maternità stabilisce il principio che o la mamma o il papà possono chiedere il congedo fino a nove mesi (con retribuzione a scalare), in modo che, se la donna ritenga di rientrare prima al lavoro, sia l’uomo a occuparsi a tempo pieno del bambino. Una piccola rivoluzione sociale in nome della parità.
(F. C.)
SVEZIA–
Ai confini del “politically correct” c’è l’asilo pubblico “Egalia”, a Stoccolma, dove le maestre non dicono “lui” o “lei” nel parlare dei bambini, e li chiamano tutti “amici”, e raccontano la fiaba delle due giraffe maschio che ebbero insieme un figlio. Motivo: “non incoraggiare le distinzioni fra sessi”. Estremi a parte, però, la Svezia offre ai suoi piccoli il modello scandinavo basato sul “libero sviluppo della personalità”: l’asilo da 1 a 5 anni di età, se i genitori lavorano o studiano, e una “pre-scuola” frequentata da 8 bambini su 10, dai 6 anni fino alla scuola dell’obbligo. La Svezia dedica all’educazione il 6,3% del Pil, più della media Ocse (5,7%).
(L. Off.)
OLANDA–
Lo “Stato-mamma” chiamato Olanda si occupa dei suoi cittadini più piccoli già quando compiono 6 settimane di età: a quell’età, infatti, possono venire accettati negli asili-nido, almeno per qualche ora. Fino ai 4 anni, data di approdo alla scuola dell’obbligo, tocca ai genitori scegliere per quanto tempo affidare i loro piccoli alle “pre-scuole”: da un minimo di 1-2 giorni alla settimana, fino a 4. Le liste d’attesa per le iscrizioni sono lunghe: da 4-5 mesi a un anno. Ci si può però rivolgere a organizzazioni di “mediatori scolastici” (costo: 50-70 euro al mese), che aiutano i genitori a scegliere la struttura giusta, e appianare i problemi burocratici.
(L. Off.)
CINA–
Nel 2009 in Cina c’erano 138mila asili, di cui il 40% pubblici e il 60% privati, che accoglievano 26.578.000 bambini, in maggioranza (60%) nelle strutture pubbliche. Il ministero dell’Educazione ammette quattro problemi: scarsa disponibilità, squilibri tra zona e zona e tra città e campagna, pochi maestri, spese sproporzionate. Il piano quinquennale ha stanziato 6 miliardi di euro per la formazione pre-scolare ma il 94,4% delle famiglie ritiene che i costi da sostenere siano eccessivi.
(M. Del Cor.)
PORTOGALLO–
La crisi economica e le condizioni imposte dall’Europa per finanziare il debito statale hanno tagliato drasticamente i servizi pubblici alle famiglie portoghesi. Già nel 2008 la quota dedicata al sostegno alla maternità era attorno allo 0,5% del Pil, penultima della zona euro. Oggi si calcola sia lo 0,3%. Il risultato è che è praticamente impossibile trovare posti in asili o nidi pubblici se si ha un reddito familiare sopra i 10mila euro annui. Nel 2012 hanno anche chiuso molte strutture private perché il calo degli stipendi non permette più la spesa. La disoccupazione permette di supplire all’aiuto pubblico con la solidarietà familiare.
(A. Ni.)
SPAGNA–
Gli aiuti spagnoli alla maternità sono scarsi (0,5% del Pil), variabili e in diminuzione. Ci sono i 4 mesi di permesso maternità e 15 giorni di paternità, ma è svanito il faraonico ”cheque bebè” di Zapatero (2.500 euro alla nascita). Resta la carenza di asili e nidi pubblici, disponibili solo per il 40 e il 10% dei bambini. Tocca alle singole regioni organizzare il servizio così qualità e quantità variano molto. Suppliscono i privati: i nidi chiedono 1-3mila euro al mese, gli asili partono da 250 euro. Comuni e Regioni sovvenzionano con un massimo di 100 euro al mese in base al reddito familiare. Nel 2013 anche quest’aiuto scomparirà.
(A. Ni.)
FRANCIA–
I bambini francesi dai 3 ai 6 anni frequentano abitualmente la scuola materna, spesso negli stessi istituti dove seguiranno poi la scuola dell’obbligo: gli asili nido si rivolgono quindi ai piccoli di età inferiore ai 3 anni e ne accolgono – con quasi 300mila posti a disposizione – circa un terzo. Gli altri due terzi dei bambini francesi sotto i tre anni ricevono un’assistenza individuale, fornita da uno dei due genitori grazie ai congedi parentali o dalle «assistenti materne», che posso svolgere la loro attività a casa loro o a domicilio. Per evitare il lavoro nero e incentivare la regolarizzazione, lo Stato assicura alle famiglie sgravi fiscali che coprono circa la metà del costo di una tata. Nonostante la tradizionale attenzione alle politiche per la famiglia, i posti negli asili nido sono scarsi: le associazioni denunciano che 9 volte su 10 le famiglie si vedono rifiutare il posto per il loro bambino negli asili pubblici. Il governo stima in 500mila i posti mancanti.
(S. M.)
GERMANIA–
A dare l’esempio è stata una mamma di Magonza, la città di Johann Gutenberg. In Renania-Palatinato i bambini di 2 anni hanno diritto a un posto gratuito, ma per suo figlio le porte dell’asilo-nido erano chiuse. Tutto pieno. Si è rivolta all’Alto tribunale amministrativo e ha avuto indietro i 400 euro spesi ogni mese per una struttura privata. Un caso-limite? Sicuramente no, perché in tutto il Paese di posti ne mancano 220.000. Il governo lo sa e sta cercando di risolvere il problema. Un poco alla volta, nello stile della cancelliera. Intanto è stato approvato dopo interminabili discussioni un provvedimento che si è trasformato in un tormentone politico: l’assegno di 100 euro al mese per le famiglie che tengono i bimbi a casa. «È la prima cosa che abolisco se vinco le elezioni», ha detto il socialdemocratico Steinbrück. Sugli asili nido, in Germania si litiga.
(P. L.)
I BAMBINI? A TOKYO LI “PARCHEGGIANO” IN METROPOLITANA–
La forma della città dà la forma ai bisogni. E se una città come Tokyo si sviluppa nel sottosuolo, con una vastissima rete di linee di metropolitana, tutto questo penetra nell’esistenza delle persone, anche quelle dei bambini. Le stazioni del metrò, anche in Giappone, diventano nodi della vita quotidiana, concentrazione di necessità: dai ristoranti ai centri servizi, dalle palestre alle banche, tutto si affolla qui. I palazzi in corrispondenza delle stazioni possono dunque ospitare Kindergarten la cui collocazione risulta strategica per i genitori. Nessuna strategia predeterminata, nessuna direttiva municipale: è sulla logistica che si inserisce l’offerta del sistema educativo. Che nel caso degli asili si struttura in categorie diverse. I nidi si suddividono in pubblici (ninka), riconosciuti (ninsho) e non riconosciuti, sui quali i controlli sono meno stringenti (muninka), ai quali si aggiungono le hoiku mama, modello analogo alle Tagesmutter nate nel mondo tedesco: riconosciute dalle autorità locali che versa loro parte del costo del servizio, devono possedere una qualifica di educatrice o almeno un figlio superiore ai 6 anni , e possono accogliere in casa propria al massimo due bambini. La retta può aggirarsi sui 50-60 mila yen al mese (500-600 euro), con le amministrazioni locali che si accollano parte del totale. L’accessibilità della struttura tuttavia non è il solo criterio di scelta. Makiko Moriyama, pettinatrice 31enne di Kawasaki, ha preferito puntare per la piccola Haru (11 mesi) su «un bell’ambiente che dia un senso di igiene». Kazumi Higuchi, 32 anni, impiegata a Tokyo, ha optato invece per una hoiku mama prima che venissero pubblicate le graduatorie ai nidi, «visto che non avevamo punti per essere ammessi». La signora Morita le tiene il figlio fino alle 17.30.
La flessibilità delle soluzioni per i nidi si ferma di fronte ai requisiti per gli asili. Per legge, devono avere un cortile in edifici indipendenti a un piano, con aule al piano terra e al primo, e questo impedisce una simbiosi troppo stretta con il sistema di trasporto urbano. Qui le classi possono accogliere al massimo 35 bambini. «Oltre alla location», spiega Kazumi Higuchi, «è importante l’età dell’edificio e il modo in cui è stato costruito, in un Paese sismico come il Giappone».
Gli asili in Giappone, secondo l’ultima statistica disponibile (2005), erano 5.546 pubblici, 8.354 privati e 49 statali (uno per provincia). Più recenti (2009) i dati sui nidi: 11.008 pubblici e 11.917 privati, con 2.040.974 bambini iscritti. In attesa, tre anni fa, risultavano oltre 25 mila bambini: molta domanda e poca offerta di servizi. Il ministero del Welfare prevede che nel giro di 5 anni si arriverà ad avere 74mila educatori in meno rispetto al necessario e ormai le amministrazioni locali sono costrette ad assumere pescando fuori città o convincendo ex insegnanti. Il 48,8% degli educatori lascia il lavoro entro tre anni a causa di stress e salari bassi. Lo stipendio infatti non arriva ai 2 mila euro al mese, il 40% in meno della media. E quello dei maestri d’asilo è un metrò sul quale sempre meno giovani giapponesi intendono salire.
Marco Del Corona