Vittorio Emanuele Parsi, il Fatto Quotidiano 13/12/2012, 13 dicembre 2012
LA CRISI E LA FINE DELL’UGUAGLIANZA
È in libreria in questi giorni “La fine dell’uguaglianza. Come la crisi economica sta distruggendo il primo valore della nostra democrazia” di Vittorio Emanuele Parsi (Mondadori, 226 pagg; 17,50 euro). Pubblichiamo qui un estratto dalle conclusioni.
Sostenere le ragioni dell’uguaglianza di fronte alla crisi attuale non significa indulgere in pessimistiche profezie pauperistiche, maledire il capitalismo o rinnegare l’individualismo nel nome di disegni francamente reazionari, ancora più pericolosi perché travestiti da preoccupazione nei confronti dei ceti popolari. Implica invece riaffermare con forza la fede nel progresso, nella capacità umana di inventare un destino migliore, anche grazie alla straordinaria risorsa costituita dalla politica. La fede nel progresso, in un futuro concepito come probabilmente diverso e possibilmente migliore rispetto al presente e al passato, la convinzione che nella storia sia effettivamente possibile individuare un sentiero che conduca al miglioramento delle condizioni di vita degli individui, dei popoli e del genere umano è l’unico plausibile discrimine ancora valido tra destra e sinistra, tra progressisti (appunto) e conservatori. E in tale orizzonte la via occidentale è ancora preferibile alle alternative disponibili. In termini estremamente concreti, è già possibile intraprendere un primo significativo passo in questa direzione. La sua adozione consentirebbe in primo luogo di ridefinire quella relazione tra finanza ed economia produttiva che da più parti è stata con forza rivendicata come necessaria per rimettere in carreggiata il motore della crescita. In questi lunghissimi mesi dominati dalla dittatura dello spread, dalla paura del contagio, dall’incenerimento finanziario di risorse reali, accumulate e risparmiate spesso col sudore di generazioni, sono stati i responsabili di governi non certo anticapitalisti, gli esponenti delle associazioni padronali, i professori di economia delle più prestigiose università a chiedere il riequilibrio dei rapporti tra finanza ed economia reale, a sostenere l’importanza di ricordare che senza produzione reale di beni e servizi non esiste più nulla da finanziare e, in ultima analisi, non esiste più ricchezza.
LA MISURA cui alludo è nota ormai da diversi decenni e per nulla rivoluzionaria: si tratta della tassazione delle transazioni internazionali dei capitali. Essa non fa che dotare le istituzioni di governo della società (ed economia e finanza sono anch’esse grandezze sociali) di uno strumento adeguato alla mutata realtà dei tempi per estrarre le risorse necessarie al loro sviluppo armonioso ed equo. Tassare le transazioni di capitale può sembrare un provvedimento vendicativo, adottato nel momento in cui il loro vorticoso susseguirsi, alla ricerca di una sorta di pietra filosofale del profitto, sta minando le radici della crescita economica. In realtà, era giusto sottoporre a tassazione questo tipo di transazioni ben prima che la crisi internazionale mostrasse i pericoli che derivano da una finanziarizzazione senza freni dell’economia. Voleva dire indirizzare il prelievo fiscale laddove la ricchezza si genera in misura sempre crescente: non era più punitivo di un provvedimento che volesse riequilibrare la concorrenza tra due attori, di cui uno evade le tasse e uno no. Sarebbe importante che una simile misura venisse adottata congiuntamente dai Paesi occidentali, il cui comune interesse a difendere innanzitutto il proprio modello di sviluppo fondato su democrazia inclusiva e libero mercato non è apertamente messo in discussione da nessun attore politico e da nessun soggetto economico. A una simile unanimità sarebbe possibile giungere anche per gradi, una volta che almeno una significativa parte di Paesi si muova in questa direzione. Tra i Paesi dell’Eurozona il consenso è piuttosto diffuso e il fatto che la Germania stessa lo abbia proposto è un elemento da non sottovalutare: se, cioè, persino il Paese finora meno colpito dalla tempesta perfetta della finanza, quello i cui titoli di Stato – i famigerati Bund così appetiti dagli investitori – rappresentano il metro di paragone per la solidità di quelli di tutti gli altri Paesi, almeno due cose dovremmo averle imparate. La prima è che la lungimiranza non è necessariamente stimolata dal bisogno o dalla precarietà delle condizioni. Questo è forse un pregiudizio tutto italiano, considerato che nella nostra esperienza spetta sempre ai novelli Cincinnato, ai salvatori della Patria in pericolo, dover operare quelle scelte lungimiranti, dimostrare “quell’attenzione per le future generazioni” che sarà pure la virtù che contraddistingue lo statista (per parafrasare Alcide De Gasperi), ma che sarebbe lecito attendersi di veder praticata, almeno di tanto in tanto, anche dai politici. No, la politica nella sua dimensione ordinaria consiste nella capacità di anticipare il futuro per cercare di predeterminarlo, di rendere taluni scenari più probabili e tal’altri meno, di dominare e ridurre l’incertezza sempre legata al tempo che verrà. Che un Paese avvantaggiato dal fatto che i propri buoni del Tesoro siano considerati il bene rifugio per eccellenza nutra certe preoccupazioni, riequilibra almeno parzialmente quella visione di una Germania arcigna e bottegaia che alcune sue esitazioni e rigidità hanno fin qui alimentato.