Federico Rendina, Il Sole 24 Ore 13/12/2012, 13 dicembre 2012
UN TESORETTO SEPOLTO DA 5 MILIARDI
Un taglio del 10% alla "tassa energetica" che ogni anno l’Italia paga al resto del mondo per importare petrolio e gas. Ben 5 miliardi di euro ogni anno a disposizione del sistema Italia per aiutarci, intanto, a uscire dalla crisi. Anche perché l’operazione avrebbe un provvidenziale effetto volano, mobilitando investimenti per 15 miliardi di euro con 88 progetti subito cantierabili perché già pre-finanziati dalle compagnie petrolifere, che potrebbero intanto creare 25mila nuovi posti di lavoro portando da 1,2 miliardi a quasi 3 miliardi di euro l’anno le entrate per lo Stato e gli enti locali.
Numeri e cifre. Ma anche promesse: un nuovo dialogo con le comunità locali, vantaggi economici aggiuntivi per i territori, nessuna invasione di trivelle ma semmai un potenziamento, intanto, degli impianti di estrazione di petrolio e gas che già abbiamo. Potrebbe essere questa la via per rilanciare le estrazioni nazionali di petrolio e gas?
Ci crede l’Assomineraria, l’associazione delle compagnie petrolifere che operano in Italia, sull’onda di uno studio analitico realizzato dall’istituto Rie (Ricerche economiche e industriali) che sarà presentato oggi in un convegno. Ci crede nonostante il destino incerto della nuova strategia energetica nazionale messa in campo dal Governo Monti con un occhio di riguardo proprio al miglior sfruttamento delle risorse interne. E nonostante le barriere alzate dal sempre battagliero fronte del no alle grandi opere, specie se in odore di petrolio e gas. Impegnato, anche qui, a bloccare un piano che potrebbe regalare al nostro Paese, il più dipendente d’Europa dalle importazioni energetiche (siamo ormai a circa il 90% del nostro fabbisogno) pur essendo tra i primi nelle risorse potenziali, addirittura un provvidenziale punto di Pil in più. Quello che deriverebbe dal raddoppio delle attuali e un po’ asfittiche estrazioni (si veda Il Sole 24 Ore del 29 luglio scorso).
Raddoppiare gli impianti in terra e in mare? Niente affatto. La carta da giocare è innanzitutto quella dell’efficienza. C’è il perfezionamento delle tecnologie petrolifere, di cui l’Italia è tra i campioni mondiali. C’è una mappa piuttosto perfezionata di quelle che sono le nostre risorse accertate e potenziali. Ci sono le proiezioni elaborate sulla base delle attività che comunque continuiamo a svolgere nonostante il progressivo calo delle attività di ricerca nell’ultimo ventennio. E tutto converge verso quella che potrebbe essere la nuova promessa in grado di sbloccare il dibattito tra i fautori del rilancio e il fronte del no che attraversa non solo le associazioni ambientaliste ma anche gli schieramenti politici.
Il grosso del potenziamento delle nostre attività estrattive «può essere realizzato aumentando le potenzialità e in qualche caso l’estensione degli attuali impianti» affermano gli artefici dello studio Assomineraria-Rie sulla scorta di una memoria appena presentata al Parlamento nel dibattito sulla Strategia Energetica Nazionale.
Certo, per dissodare il terreno del consenso serve un nuovo clima di trasparenza nel dialogo non solo con lo Stato centrale ma soprattutto con le amministrazioni locali «con una distribuzione delle royalties a maggior vantaggio dei territori dei cittadini direttamente interessati alle attività». E serve una drastica revisione delle procedure di validazione e autorizzazione dei progetti «con la definizione di un titolo unico che possa attrarre maggiormente gli investitori privati».
Il primo passo? «Sfatare i falsi miti che inducono il nostro paese a lavorare in gran parte per pagarsi l’energia importata», incalza Alberto Clò, presidente del Rie e già ministro dell’Industria del governo Dini del 1995-’96. L’Italia – rimarca Clò – è un Paese ricco di risorse. Esclusi grandi produttori del Mare del Nord, come la Norvegia e l’Inghilterra, il nostro Pè al vertice per riserve di petrolio. E nonostante la progressiva chiusura dei rubinetti rimane secondo produttore dopo la Danimarca. Mentre nel gas, che al contrario del petrolio è caratterizzato da una richiesta in prospettiva crescente, è in quarta posizione nelle riserve stimate e in sesta posizione per produzione, «non tanto per la povertà del sottosuolo ma per l’impossibilità di valorizzarlo».
Ci ricorda il Rie che l’anno scorso la produzione nazionale di gas è stata di 6,6 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (Tep), quella di petrolio di 5,3 milioni, contribuendo rispettivamente al 10,7 e al 7,4% della domanda interna. Tre quarti del gas viene dagli impianti marini e il restante essenzialmente da Basilicata e Sicilia. Mentre il grosso del petrolio viene dai giacimenti interni della Val d’Agri in Basilicata. Con qualche contributo in Sicilia, Lombardia e Piemonte.
Le riserve? Innanzitutto una premessa: anche considerando le esplorazioni già effettuate negli impianti già operativi avremmo potuto - afferma il Rie - estrarre il doppio. Ed ecco le stime: a fronte di una produzione negli ultimi trent’anni per 760 miliardi di metri cubi di gas e per 1,2 miliardi di barili di petrolio, le riserve accertate e recuperabili con le attuali strutture sono per il gas oltre 260 miliardi di metri cubi e per il petrolio almeno 2,4 miliardi di barili (il doppio di ciò che abbiamo ricavato sinora).
I rischi per il territorio e l’ambiente? «Tra il 1970 e il 1990 abbiamo perforato mediamente 100 pozzi l’anno senza alcun impatto di rilevo. E non abbiamo avuto nessun caso di blow-out nei pozzi offshore contro una media europea e mondiale attorno a 1,5 per mille pozzi perforati». Il vero rischio? «È semmai il transito delle petroliere nel Mediterraneo».