Luca Faccio, la Repubblica 13/12/2012, 13 dicembre 2012
TRA I GRATTACIELI E I BAR DI PYONGYANG LA CAPITALE CHE CAMBIA MA RESTA SEMPRE ISOLATA
I gruppi di turisti tedeschi, cinesi o americani che affollano i banchi dell’aeroporto internazionale Sousan non devono trarre in inganno. Certo, i sorrisi e le foto ricordo con i soldati di frontiera sono un’immagine che fino a pochi anni fa sarebbe costata l’immediata espulsione all’incauto visitatore, ma dietro quell’apparente aria di normalità si nasconde un Paese ancora ermeticamente chiuso nel quale il flusso delle informazioni viene passato sotto la censura e l’ordine del Palazzo resta sempre lo stesso: evitare che «materiale anti-rivoluzionario e capitalista » possa circolare nelle case del popolo nordcoreano.
Siamo tornati a Pyongyang un anno dopo l’insediamento di Kim Jong-un, il “giovane leader”, e sembrano visibili i primi cambiamenti politici e sociali del Paese più eremita del mondo. Anche se l’ultima sfida al mondo, quel missile lanciato nella notte, dimostra che la Corea del Nord resta ancora una seria minaccia per l’Occidente.
Dopo 20 minuti di auto, la prima sorpresa sono i grattacieli di vetro che modellano la nuova skyline della capitale. Molti dei palazzoni grigi della “Mosca d’Asia” sono stati abbattuti, racconta con orgoglio una delle nostre guide, e al loro posto è sorta la nuova city a ridosso del fiume Taedong: «In appena 14 mesi», precisa soddisfatto chi ci accompagna. Nelle strade di Pyongyang, ad ogni incrocio gruppi di bandiere del partito dei lavoratori e della Corea del Nord fanno da cornice a viali a sei corsie. Il traffico è infernale e attraversare da un marciapiedi all’altro diventa un terno al lotto, malgrado le strisce pedonali che qui nessuno intende rispettare. I taxi sono ancora le vecchie Lada di fabbricazione sovietica, ma non mancano Toyota e Mercedes che, soltanto poco tempo fa, erano tabù. È il segno di un miglioramento della qualità della vita in un Paese sicuramente in grave crisi ma che lentamente cerca di trasformarsi.
Davanti alla casa natale di Kim Il-sung, alcune ragazze sfoggiano borse griffate — naturalmente falsi made in China — mentre alcuni loro amici chiacchierano al telefonino. Scene di normalità per noi occidentali ma impensabili a Pyongyang appena qualche anno fa, quando ci si incontrava solo nei parchi, ben pochi potevano permettersi una cena al ristorante e cellulari, computer e macchine fotografiche digitali erano simboli del capitalismo selvaggio, il nemico più grande da combattere. E non è raro vedere bambini con le magliette degli eroi di Walt Disney o adolescenti in stile manga giapponese, esattamente come potrebbe accadere a Londra o New York.
A sorpresa, in un ristorante del distretto di Chung-guyok, è stata sdoganata persino la pizza e, poco distante, sono nati anche due locali che provano a proporre menù italiani a base di lasagne e spaghetti alla bolognese. E mentre nell’imponente stadio Primo Maggio, i tradizionali
spettacoli di danza che magnificavano le armate coreane e la corsa al nucleare sono stati sostituiti da danze dedicate allo sviluppo agricolo, anche la tv di Stato si adegua ai tempi e limita la diffusione dei soliti film postsovietici in bianco e nero sostituiti dalle telenovelas prodotte nei film studios di Pyongyang — storie d’amore tra l’operaio e la contadina — che fanno sognare le ragazze nordcoreane. «L’agricoltura potrebbe rilanciare questo Paese», spiega Friedrich Theodor della Fao, che cura progetti di lavorazione in grado di migliorare le condizioni fisicomeccaniche e biologiche del terreno. E l’apertura di piccoli mercatini privati in diversi quartieri della capitale, bancarelle nelle quali gli agricoltori possono vendere il 30% del loro raccolto a prezzi imposti dallo Stato, conferma come piccole riforme possono, in qualche modo, migliorare la disastrata economia di questo Paese.
C’è poi il “giovane leader” Kim Jong-un, idolatrato come il padre e il nonno, che qui presentano come un padre della patria molto più aperto all’occidente ma che, con l’ultima sfida al mondo si attesta sulla linea dei suoi predecessori. Certo ha uno stile ben diverso dai vecchi capi: visita appartamenti e beve alcolici in segno di amicizia col suo popolo, va ai concerti, annuncia
che presto consentirà a Internet di varcare i confini del suo Paese. Con grandi limitazioni — molti dicono censure — e solo nei computer di alcune università dove già da qualche tempo gli studenti possono accedere al web per effettuare ricerche e studi. Ma è già qualcosa.
Segnali, piccoli dettagli di un progresso che un missile scagliato contro l’Occidente rischia adesso di spazzare via. Come quel caffè viennese aperto in piazza Kim il-Sung, alle spalle della torre Juche e del fiume Taedong, ai piedi di un palazzone di granito grigio. L’apertura di un nuovo bar è una di quelle notizie che non meritano nemmeno una riga su un giornale di provincia. Ma qui a Pyongyang, invece, è un fatto di rilievo. Racconta di una economia che vuole aprirsi al mondo. Ma che, purtroppo, continua a contrapporsi a una politica estera di aperta ostilità. Il cambiamento, qui in Corea del Nord, è un percorso ancora lungo e lento.