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 2012  dicembre 12 Mercoledì calendario

LO FACCIO ANCHE PER TE PAPA’

[Si commuove mentre ricorda il giorno del 1979 quando suo padre Giorgio venne ucciso perchè cercava verità scomode. Proprio come lui, Umberto Ambrosoli è diventato avvocato. e adesso che si candida presidente della Lombardia, c’è qualcuno di importante che gli dice «vengo anch’io»] –
«Mia madre ci svegliò all’alba. Ci vestimmo di corsa e ci mettemmo in macchina. La ragione dell’urgenza del ritorno in città, in quel momento, non era definita. Poi ci fermammo all’autogrill per fare colazione, e la radio annunciò che a Milano, la sera prima, era stato assassinato l’avvocato Giorgio Ambrosoli. Subito mia madre alzò la voce per coprire quella del giornalista, ma da quel momento, e per il resto del viaggio, ciascuno di noi nel proprio intimo sapeva. Ricordo mia sorella Francesca, seduta davanti, che piangeva».

Umberto Ambrosoli chiede di interrompere per un momento l’intervista. Sarà l’unico momento in cui la commozione offuscherà il suo sguardo limpido e per il resto sempre sorridente.
Aveva 7 anni il 12 luglio 1979, giorno di quel viaggio in auto tra il mare della Liguria e Milano, tra la spensieratezza delle vacanze e un lutto di quelli che fanno finire l’infanzia e cambiano la vita. Era il terzogenito di Giorgio, avvocato, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, incaricato di indagare sulle attività poco pulite del faccendiere Michele Sindona. Ne avrebbe compiuti quindici prima di scoprire, con la fine del processo, che ad assoldare l’assassino di suo padre era stato proprio Sindona.
A 39, per spiegare ai suoi figli di chi sono nipoti, ha scritto Qualunque cosa succeda. Oggi che ne ha 41 e fa lui stesso l’avvocato, ha deciso di entrare in politica: il 15 dicembre corre nelle primarie del Patto civico per la Lombardia, da cui uscirà il candidato del centrosinistra per la presidenza della Regione. Ci riceve nella casa dove vive con la moglie Alessandra, avvocato anche lei, e i tre figli: Giorgio, Annina, Martino.

Nel titolo del suo libro – poi trasformato in film da Michele Placido – Corrado Stajano definiva Giorgio Ambrosoli Un eroe borghese. Che cosa vuol dire, per lei, questa espressione?
«Che non bisogna essere straordinari per fare qualcosa di straordinario: a papà è bastato rimanere fedele ai suoi principi. Per presentare il mio, di libro, ho fatto più di 350 incontri in Italia: lei neppure immagina quanta gente è venuta a dirmi che la forza di non arrendersi, in certi momenti, gliel’ha data l’esempio di mio padre. Perché la politica non è in grado di interpretare una responsabilità declinata nello stesso modo? La mia sfida di oggi è questa».
Perché in Regione?
«In realtà mi avevano già proposto, due anni fa, di scendere in campo per le elezioni del sindaco di Milano. Lo stesso Giuliano (Pisapia, ndr), incrociandomi una volta in tribunale, mi disse: “Perché non ti candidi?”. E io: “Perché non ti candidi tu?”».
Adesso però tocca a lei: per il Pd.
«Ma ho sempre voluto che questa operazione, invece di fondarsi solo sui partiti, coinvolgesse soprattutto la società civile. La mia sfida è stata quella di far indire le primarie da un organismo esterno, il Patto civico, rivolto a tutte le forze democratiche che riconoscono l’urgenza di una discontinuità con quello che è stato il governo della Regione Lombardia negli ultimi anni».
Qualcuno potrebbe accusarla di sfruttare il cognome e la storia di suo padre.
«Se ho tentennato a lungo prima di candidarmi è stato proprio perché so che arriveranno attacchi personali. Ma credo ne valga la pena».
Com’è stata la sua vita, dopo quella mattina di luglio?
«Sono stato, nonostante tutto, molto fortunato. Mia madre ha una forza così straordinaria che è riuscita a essere completa come genitore. Ha sempre lavorato, aveva una società di catering dove noi figli tra l’altro abbiamo lavorato come camerieri. E poi ho avuto tanti papà, due o tre in particolare, amici di mio padre che lui stesso menzionava nella lettera di commiato scritta a mia madre quattro anni prima di morire: evidentemente aveva previsto tutto (Qualunque cosa succeda, il titolo del libro di Ambrosoli figlio, viene proprio da una frase di quella lettera, ndr)».
Come sono stati, con lei, questi «tanti papà»?
«Non mi hanno mai messo pressione. Ero uno studente abbastanza pessimo, distratto, anche perché già allora facevo politica: alle medie ero l’unico a leggere tutti i giornali prima di colazione, al Liceo classico Manzoni sono stato eletto in una lista vicina all’area liberal-repubblicana. Ma non c’è mai stato nessuno di loro che, con le materie a settembre, mi abbia detto: “Tuo padre sarebbe deluso”».
Nessun momento di sbandamento?
«Alle medie, ci fu un periodo in cui mi dicevo: magari adesso riappare, magari è stato costretto a sparire per ragioni di sicurezza più alte di noi, per evitare conseguenze peggiori. Ho sempre voluto sapere tutto di lui, mi infilai di nascosto a una udienza del processo e mia madre mi notò subito».
La fece uscire?
«No. Pensava che fosse giusto soddisfare la mia curiosità. Forse avrebbe preferito che non facessi il lavoro di papà, temeva ci fosse dell’emulazione. Io stesso, quando ho scelto di fare il penalista, mi sono chiesto se non lo stessi facendo per evitare il civile, la specialità di mio padre. Ironia della sorte – occupandomi di reati societari, truffe ai danni dello Stato, bancarotte – mi sono trovato a fare un lavoro molto simile a quello che mio padre pagò con la vita».
Un penalista però difende anche i colpevoli.
«Chi sbaglia ha diritto di essere aiutato, che non vuol dire aiutarlo a sfuggire dalle proprie responsabilità».
Proprio Pisapia ha difeso Robert Venetucci, il boss che fece da intermediario tra Sindona e il killer.
«Non esiste simbiosi tra il professionista e il suo assistito. E poi, mia mamma mi ha raccontato che, negli anni del processo, Giuliano le scrisse un biglietto dove le spiegava il senso di quella difesa. Che, infatti, condusse con il massimo rispetto delle parti».
I suoi fratelli, che erano più grandi di lei, come hanno vissuto la perdita?
«Filippo, che all’epoca dell’omicidio era tredicenne, due anni dopo ha avuto una malattia molto importante, un tumore al cervello. E non ci sono riscontri scientifici, ma in molti ipotizzano un possibile legame fra traumi e malattie. Eravamo in vacanza al lago, d’estate, quando iniziò a svegliarsi di notte, e a vomitare. Lo operarono, fece mesi di chemio e cobaltoterapia, perse un paio di anni in termini di vita sociale, ma poi recuperò. La sua passione era il disegno, e si laureò in Architettura».
Tre anni fa è stato trovato morto, in casa, proprio il giorno in cui voi della famiglia presenziavate all’inaugurazione di un’aula della Bocconi intitolata a vostro padre.
«Eravamo sorpresi che non fosse venuto. Probabilmente era morto già da un paio di giorni, per un arresto cardiaco. Le terapie che aveva fatto da ragazzo gli avevano minato il fisico. Abbiamo organizzato, con i suoi acquerelli, una mostra e un’asta per finanziare un congresso sulle conseguenze tardive delle terapie antitumorali».
Mi parla dei suoi amici?
«Ne avevo tanti, principalmente compagni di scuola, che poi ritrovavo il pomeriggio negli scout».
Scout anche lei, come il sindaco di Firenze Matteo Renzi?
«Vengo da una famiglia cattolica».
Ragazze?
«Sono stato soggetto a lunghi periodi di innamoramenti senza riscontro. Le storie vere sono iniziate l’anno della maturità».
Come ha conosciuto sua moglie?
«Davanti al muro del pianto».
A Gerusalemme?
«No, quello dei risultati dell’esame da avvocato. Siamo tra i pochissimi che ricordano quella tappa con gioia: non solo perché avevamo entrambi lo scritto, ma perché ci siamo innamorati preparando insieme l’orale, d’estate, a Milano. Dopo esserci salutati, a tarda sera, stavamo ore al telefono a commentare quello che vedevamo alla Tv: all’epoca andavamo pazzi per Ally McBeal».
Che cosa ricorda del primo bacio?
«Una sensazione sopra le altre: perfetto, allora esiste la persona che hai sempre aspettato. Due mesi dopo Alessandra
è rimasta incinta del nostro primo figlio, un anno e mezzo più tardi ci siamo sposati, in chiesa. Ma non mi considero un praticante. E per il battesimo dei figli aspettiamo che siano loro a capire il senso di quella scelta».
Che cosa pensa sua moglie della decisione di scendere in campo?
«Mi ha detto: “Vengo anch’io”».
Mi spiega perché in famiglia la chiamano Betò?
«Era il nome di un amico dei miei genitori che sembrava Attila. Visto che io da piccolo ero un devastatore, mi diedero quel soprannome».
Quello vero, Umberto, è un nome da Savoia: davvero i suoi genitori erano monarchici?
«Verissimo: si erano conosciuti alla Gioventù monarchica italiana. Il mio album di foto da bambino si apre con un biglietto del segretario di Umberto II che, da Cascais, ringrazia per aver avvertito il re della mia nascita e si felicita. Papà è stato sepolto con un mazzo di rose mandate da Umberto. Io stesso, per affetto familiare, ho partecipato a qualche iniziativa benefica legata alle tradizioni monarchiche».
Monarchico di famiglia, liberal-repubblicano da giovane: come è approdato al centrosinistra?
«È successo progressivamente, quando ho visto che il centrodestra diventava qualcosa di molto diverso dai valori in cui mi riconosco, e che poi sono quelli della prima parte della nostra Costituzione: lavoro e solidarietà in testa».
Chi vota a sinistra potrebbe restare scettico nei suoi confronti.
«Penso che la mia fede democratica non dia spazio a incomprensioni. I punti cardine del mio programma sono: discontinuità con la gestione precedente, sviluppo dell’impresa e del lavoro, rottura con le politiche familiaristiche, e un’attenzione diversa ai temi ambientali».
Il presidente uscente della Lombardia, Roberto Formigoni, l’ha diffidata dal ripetere che la Regione ha aperto le porte alla mafia.
«Essere stato diffidato per aver ripetuto quello che dicono le indagini mi ­riempie d’orgoglio: è come aver ricevuto una medaglia».