Francesco Olivo, Il Messaggero - Roma 13/12/2012, 13 dicembre 2012
LADRI DI PIGNE, ESPLODE IL BUSINESS
Sarà la crisi, o sarà la stagione. Quelli che un tempo rubavano le galline, si sono riconvertiti, salgono sui pini e rubano le pigne. Gli ultimi li hanno presi a Castelfusano, uno si era arrampicato sull’albero e gli altri lo aspettavano sotto, poi con il furgone via sulla Colombo. Il bottino: 400 chili di pigne. Sì, di pigne. Niente di grave, si dirà, ma sulla strada hanno trovato i carabinieri che li hanno arrestati, sequestrando i sacchi con la refurtiva e addio pesto. Questa piccola banda di disperati è l’ultima di una lunga serie di fermi per questa originale, e non particolarmente efferata, tipologia di ladri. Le zone più colpite sono le pinete e i parchi, specie quelli meno controllati come Castelfusano o il parco di Tor Tre Teste, o intorno alle Capannelle. Più rari i casi di furti in tenute private. Spesso si tratta di rom, ma ultimamente anche qualche italiano si è dato al curioso business.
IN TRIBUNALE
A piazzale Clodio di casi così ne capitano più spesso di quanto si pensi, tra novembre e dicembre (siamo nel pieno della maturazione dei pinoli) la media è stata di due volte a settimana. Con i frutti dei pini, in effetti, si fanno un po’ di soldi: i pinoli al mercato costano circa 63 euro al chilo. Il problema, in realtà, nasce dopo, ovvero con gli arresti. La procura, infatti, è divisa, per filosofia e per agenda: alcuni magistrati sposano la linea dura, altri ritengono, anche un po’ seccati, di avere ben altre priorità. A far discutere, intanto, è il reato da contestare: per i giudici più rigorosi, chi prende delle pigne dalle pinete pubbliche deve essere condannato per furto e anche per danneggiamento aggravato, quando durante le operazioni vengono spezzati i rami. Questa giurisprudenza più restrittiva si basa su un concetto di fondo: le pigne sono un bene dello Stato, al di là dell’uso che lo Stato ne fa (spesso nessuno).
COME LE MORE
C’è una parte dei pubblici ministeri che la vede in un’altra maniera: «È come se arrestassimo la gente che coglie le more o che va a cicoria», spiega un magistrato nel corridoio. A lamentarsi sono parecchi pm: «Poi dicono che la giustizia va a rilento, per forza. Avremmo parecchie faccende più serie di cui occuparci». Il risultato di questa mancanza di una linea univoca sul tema è che alcuni pignaroli vengono processati per direttissima e condannati, di solito, a sei o a otto mesi grazie alle attenuanti e al rito abbreviato, con una pena pecuniaria che si aggira tra i 150 ai 516 euro, mentre ad altri, capitati tra altre mani, non viene nemmeno convalidato l’arresto. Tornano in libertà con i loro sacchi con i frutti dei pini. E della crisi.