Marco De Martino, VanityFair 12/12/2012, 12 dicembre 2012
UOVA, FARINA, AMORE E SKIPE
Antonella si volta e urla ai maestri pastai, chef, manager, camerieri schierati dietro di lei per la foto: «All together now, smile! Tortellini!». Pausa. «Ravioli!». Pausa. Arriva un suggerimento. «Hai ragione: cheese!».
Sulla pasta è fondato l’impero familiare dei Rana, ma ce n’è voluta per raggiungere il sogno della «Merica», come la chiamano a San Giovanni Lupatoto, il paese vicino a Verona dove è cominciato tutto. Ci sono voluti anni di ricerche per insediarsi a Bartlett, vicino Chicago, dove Gian Luca dirige le operazioni americane da uno stabilimento da 100 persone che nel 2013 produrrà un fatturato di 100 milioni di dollari. Altrettanti per costruire questo ristorante e pastificio nel Chelsea market di New York dove Antonella arriva ogni mattina alle 11, dopo lo Skype con i figli, per andarsene quasi a mezzanotte: accoglie i clienti, serve a tavola, e il giorno che è stata raggiunta la cifra record di 787 coperti si è messa pure a pulire i tavoli. Ma l’America richiede tanto lavoro anche al capodinastia Giovanni che è rimasto nella tenuta di famiglia del Basso Veronese, dove si è messo a fare ancora di più il nonno per stare accanto ai nipoti Giovanni, 17 anni, e Maria Sole, 9.
Loro, ormai, mamma e papà li vedono raramente. Parla nonno Giovanni: «Quando l’assenza si fa prolungata mi sistemo
in un appartamento vicino al loro, e gli chiedo di farmi da mangiare: il mio nipotino Giovanni è fantastico, tutto come suo padre che stava in cucina fin da bambino, l’unico problema è che i suoi gnocchi al gorgonzola sono da 2 mila calorie al boccone». E Antonella: «La verità è che ora fa da mangiare anche Maria Sole, per ricambiare il fratello per quanto si occupa di lei». Aggiunge Gian Luca: «Il fratello grande ora la prende in braccio, la porta a letto, le legge le storie: questa separazione tra noi e loro è a volte difficile, ma ci ha messi in condizione di volerci tutti più bene».
Siamo con Giovanni, Gian Luca e Antonella, eccezionalmente insieme a un tavolo del ristorante di New York, interrotti solo dagli italiani che riconoscono nonno Rana dalla pubblicità e dagli americani incuriositi da questo nuovo prodotto esotico, la pasta fresca. «Sono due culture che si incontrano», dice Antonella. «Un po’ come quando abbiamo dovuto spiegare Sex And the City al signor Giovanni».
Era necessario?
Antonella: «Sì, perché il muro del ristorante confina con Buddakan, il locale dove sono state girate le scene più importanti del film. E il signor Giovanni di Sarah Jessica Parker non sapeva nulla, ma chiedeva: “Che cos’è questo film osé?”».
Giovanni: «Ancora non l’ho visto, ma prometto: mi aggiorno presto».
Come è nata la vostra avventura americana?
G.: «Per me l’America è sempre stata un sogno, fin dagli anni Cinquanta, quando vedevo gli immigrati che partivano per venire a lavorare qui, ma non potevo muovermi perché ero un artigianotto. C’è voluto Gian Luca per farlo. Con lui prima ci siamo espansi in Europa, dove ora si genera il 50 per cento dei volumi del pastificio, e ora eccoci qui».
Gian Luca: «È iniziato tutto sette anni fa, quando già esportavamo in America, e ho cominciato a cercare un’azienda da acquisire. Dopo due anni di ricerche mi sono reso conto che nessuno aveva il livello tecnologico che cercavamo, e abbiamo deciso di aprire uno stabilimento. L’Italia soffre, l’Europa è incerta: aprire negli Stati Uniti significa dare una stabilità maggiore al gruppo, e alle famiglie che dipendono da noi. Mentre gli altri licenziavano o mettevano in cassa integrazione, noi non solo non abbiamo perso un posto di lavoro, ma abbiamo raddoppiato il personale».
A.: «In tanti anni, con loro due non ho mai sentito parlare di maggiori profitti: a muoverli è sempre il bene dell’azienda, il senso etico di garantire l’occupazione».
Quando ha conosciuto Gian Luca?
A.: «Undici anni fa».
G.L. (all’unisono): «Dieci anni fa».
A.: «Amore, me ne hai scontato uno...».
G.L.: «Non conta, è quello della prova».
A.: «Un comune amico ha pensato che fossimo perfetti l’una per l’altro, e ci ha fatto conoscere».
G.: «È stata una mediazione perfetta».
G.L.: «L’amico mi ha detto: “Ho conosciuto una che è pazza come te, perché vuole una famiglia, dei figli, le stesse cose di cui continui a parlare tu”. L’ho invitata subito a una cena con una decina di amici. Cucinavo io, come sempre».
A.: «E io ho fatto da sous chef, come succede ancora adesso».
G.L.: «È facendole fare l’assistente che l’ho fatta innamorare».
Si ricorda il menu?
G.L.: «Filetto di maiale avvolto nel lardo di Colonnata, con contorno di patatine novelle e topinambur. E poi la dichiarazione d’amore: un risotto ai due colori con le capesante, e in mezzo il nero di seppia fatto a cuore».
Ma subito la dichiarazione d’amore?
G.L.: «Bisogna dire subito le cose come si pensano. E poi io sono abituato alla pasta fresca, consegne veloci, non perdo mai tempo».
A. «Quando mi ha cucinato questo filetto, Gian Luca mi ha domandato di tenere fermo col dito lo spago da cucina mentre faceva il nodo. E me lo ha stritolato. Ma invece di urlare, io ho pensato che quello fosse il simbolo di una nuova unione, un nodo d’amore».
G.L.: «Lo spago dell’arrosto».
A.: «Niente anelli: spago da cucina».
È stato amore a prima vista?
A.: «È cambiato tutto, subito».
G.: (ridendo): «Tenga conto che la nonna di Antonella è padovana, il nonno è siciliano, la mamma romagnola: tre tipi diversi di sangue, ma tutti calienti».
A.: «Ero appena tornata in Italia dopo un anno a New York a studiare il linguaggio dei segni in una famiglia di sordi profondi: ho lasciato l’università, col risultato che mi mancano ancora cinque esami per laurearmi in Filosofia».
La filosofia le serve a New York?
A.: «Specialmente qua, perché insegna l’ascolto dell’altro. Ma mi serve anche la mia storia familiare: io sono nata nella pensione gestita da mio padre a Rimini, si chiamava Villa Rosa Riviera, e la prima camera l’ho affittata a cinque anni rispondendo al telefono al posto suo. Papà parlava tanto del diritto alla felicità di un sogno, del fatto che noi non sappiamo quanto i clienti abbiano risparmiato e investito per la vacanza che facevano da noi, ed è questo che ricordo quando accolgo quelli che vengono a mangiare nei nostri ristoranti».
E gli americani che cosa danno ai Rana?
G.L.: «Ci hanno accolto a braccia aperte, con incentivi e agevolazioni fiscali, con tempi brevissimi per ottenere i permessi di costruzione. Il confronto con l’Italia è inevitabile. Parlavo con un tassista di Orlando: dopo aver saputo che ero italiano mi ha detto che lui dal nostro Paese è scappato dopo pochi anni. Diceva: “Da voi bisogna essere troppo furbi, in America basta lavorare”».
E i figli come vivono questa esperienza?
A.: «Per fortuna sono ragazzi speciali, e lo sono perché sanno riconoscere le cose vere da quelle false. Sono consapevoli di far parte di una famiglia fortunatissima: io e Gian Luca lavoriamo così tanto perché è l’unico modo per esprimere la gratitudine per quello che abbiamo. Ma c’è stato un momento, all’inizio di questa avventura, in cui la piccola mi ha chiesto se lavorassimo così tanto perché ci piace. Mi è venuto il dubbio potesse pensare che la nostra fosse una scelta, e allora abbiamo spiegato loro che si tratta di un momento difficile per tutti, e che anche noi dobbiamo stare molto attenti nei nostri comportamenti, che dobbiamo sprecare il meno possibile, e che dobbiamo impegnarci ancora di più perché abbiamo una responsabilità speciale».
G.L.: «Il punto di svolta è arrivato la scorsa estate quando li abbiamo fatti venire negli Stati Uniti, portandoli con noi sul lavoro. Vivendo le nostre giornate, hanno capito».
Che cosa vi manca?
G.L.: «Tutto. Pensi che quando sono a casa cucino ogni sera io».
A.: «Mi manca la vita vera, con i figli. Skype aiuta, ma è uno strumento che non ti soddisfa del tutto».
Chi dei figli seguirà le vostre orme?
G.: «Lei è un peperino, un’attrice nata. Giovanni è più prudente, saggio. Si bilanciano, lavoreranno insieme».
G.L.: «Maria Sole è quella che parla inglese meglio di tutti noi: a Chicago la prendono per una del Midwest, qui per una di New York. Mi dice: “Papà, io voglio confondermi”. Giovanni è meditativo, mi somiglia: a volte troppo».
A.: «Maria Sole da un po’ ha cominciato ad andare a pulire le stalle dei cavalli alle sei di mattino e quando mia madre, che ci aiuta con loro, le ha chiesto perché, lei ha risposto: “Forse non lo sai, ma l’Italia è grave. Bisogna darsi da fare”. Anche lei è responsabile, ma sul grande forse pesa l’omonimia col signor Giovanni».
Scusi, perché lo chiama signor Giovanni?
G. (sorridendo): «Sono anni che cerco di convincerla: ci vuole pazienza».
A.: «È un modo per esprimere ancora di più il rispetto che ho per loro, e mi fa sentire a mio agio. Stranamente è molto utile sul lavoro: quando c’è da dire una cosa difficile al signor Rana, lo faccio io».
G.: «Quando c’è una grana mandiamo avanti lei, e quasi sempre la risolve».
A.: «Funziona. Il signor Giovanni mi presenta così: “Si chiama Antonella. Nella vita vera è mia nuora. Ma sul lavoro è mia suocera”».