Michele Neri, Vanity Fair 12/12/2012, 12 dicembre 2012
DOTTOR FABRI E MISTER FIBRA
Da dove partiamo?
«Ma dal titolo, direi: Guerra e pace».
Fabri Fibra ha ragione. Sta tutto lì. Ogni pensiero che si muove dietro la sua espressione rilassata sembra attingere a queste due grandi parole, sulla cover del suo prossimo disco e prese a prestito dal capolavoro di Lev Tolstoj. Ragioni dei conflitti (ormai finiti) e dell’armistizio (forse raggiunto) sono il sottofondo di una lunga conversazione, in cui il 36enne di Senigallia, nato Fabrizio Tarducci, istituzionalmente polemico e trasgressivo, si mostra invece un gentleman disciplinato e dice soltanto un paio di parolacce, per poi scusarsi. A suo agio mentre è fotografato, il volto reso ancora più bianco e disteso dal contrasto con il resto del corpo fittamente tatuato, appare soprattutto felice.
Tra incertezze e soprassalti di vanità (è pur sempre un rapper), ma in stato di grazia: per il nuovo disco, 20 brani, sempre con la Universal e in uscita il 5 febbraio, appena terminato di registrare; e per la strada che l’ha portato qui. A differenza del Dottor Jekyll che nel romanzo di Stevenson non riusciva più a controllare la sua metà oscura, Mister Hyde, Dottor Fabri sembra aver lasciato Mister Fibra a distanza di sicurezza: se ne serve, quando necessario. Ma torniamo al titolo.
«È un discorso di vita. Quando, un anno fa, ho finito il lunghissimo tour del mio rap futuristico (“rap futuristico” era un verso di Tranne te, ndr), mi sono trovato nel mio appartamento di Quarto Oggiaro. Entusiasmo musicale: zero. Mi avevano trasformato in una pubblicità. Due mesi di ritiro. Mi sono appassionato ai film in bianco e nero, al neorealismo. Ho letto Scritti corsari di Pasolini, ho cercato, come lui, di immaginare il futuro. Andare indietro nel tempo per poi tornare avanti. Uscire dal mio personaggio. E avvicinare i miei contrasti: male e bene, bianco e nero, guerra e pace».
Ma il romanzo di Tolstoj l’ha letto?
«Sì».
La guerra di Mister Fibra la conosciamo. È nei testi di successi come Tranne te («A 12 anni a contare le stelle / a 30 anni a contare le parcelle»). Esce da ogni polemica, da ogni intervista. Ha riempito un libro impetuoso, Dietrologia. Nasce dai ricordi di un’infanzia dura, i lavori umili – l’azienda marchigiana dei posacenere –, la fuga orgogliosa a Londra. Poi dal bisogno di: non essere frainteso, contare i soldi, «fare brutto», svegliare i ragazzi che hanno ipotecato ogni rabbia e speranza, avvisarci della «Merda che continuiamo a mettere sotto i tappeti», strapazzare cantanti che non hanno niente da dire o parenti con cui non c’è niente da spartire. Una missione: la verità. Salvare «l’adolescente che ero io», e con lui tutti gli altri. Questa la guerra. Per arrivare alla pace doveva cambiare percorso, e non importa se nel descriverlo Dottor Fabri sembra cadere in qualche contraddizione. È nel suo mestiere.
«Pensavo che, con le parole, potessi fare la guerra al mondo. Invece la guerra era dentro di me. Con i miei pezzi ho sempre cercato di psicoanalizzarmi, ricongiungermi con il mio io piccolo. A 15 anni cercavo il fratello maggiore, l’altro che venendoti incontro ti offre la forza per liberarti.
Per me è stata la musica, e non deludere gli altri. Con il pubblico che cresceva, ho pensato di poter osare di più: ma scandalizzava la volgarità. Il fatto è che, per condurre questa guerra di verità, ho sbagliato armi. Sono andato contro la gente, anche se volevo aiutarla. Molte cose che ho fatto, o detto, non le condivido più. Una volta ero andato a RadioRai e avevo incontrato Fiorello. In quella fase dovevo essere sempre contro. Mi ero chiuso in bagno a fumare, Fiorello mi fa: “Polizia!”. E poi tutta una gag, anche se non ci si conosceva. Io esco fuori e, volendo fare ancora di più il personaggio, gli ho detto: “Dal vivo sembri più vecchio”. Lui mi ha guardato come pensasse: perché cerchi sempre di dire cazzate? Ora ho cominciato a guardare la mia immagine pubblica, il mio successo, sotto un’altra luce. Più che far colpo sugli altri, voglio far uscire me stesso. Per questo ho bisogno di recuperare una parola: pace».
L’ultimo brano di Guerra e pace è stato registrato da pochissimo. «Un disco nuovo dura un giorno, poi si perde nelle mani della gente e non lo riconosci più. Ma oggi è mio». I nuovi pezzi, preceduti il 12 dicembre dal brano Pronti, partenza, via! e da un EP già online gratuitamente sul sito del rapper, Casus belli, compongono insieme un nuovo affresco italiano. Quello che colpisce anche un orecchio inesperto, rispetto al passato, sono un’indignazione e una protesta calme e profonde. Una prova matura. È un rap maneggevole e filosofico. Talvolta ironico, quasi malinconico. Evidente in un duetto con Neffa, l’amico più grande che lanciò Fibra ancora piccolo e che qui è ringraziato da chi, nel frattempo, l’ha superato. E nel brano, intitolato Panico («Lavorare insieme è stato meglio di un orgasmo»), incalza il più sornione Neffa con un: «Il mio motto è / piede sul pedale».
Sì, pedalare: «In questi cinque anni ho fatto cinque dischi di platino e cinque traslochi – dalla camera in condivisione perché non avevo una lira a quella con il gabinetto dentro, dal primo vero appartamento a Quarto Oggiaro a quello che ho oggi, vicino a San Siro –, ma se uno mi chiede cosa ci faccio qui, bene, quello che ora dico a tutti è che io sono qui per il lavoro. Se vuoi riempire il vuoto della tua vita, devi trasformare quello che hai dentro in un lavoro. Se non ci provi, non vivrai la vita da protagonista. Quelli che si limitano a starmi attorno, perché lo fanno? Se sono maschi per la figa, se sono femmine per vivere quello che vedono in Tv e poi raccontarlo. E a me, che sono in mezzo, che cosa rimane? Il lavoro. Il resto è sfondo, e non mi riguarda: soltanto così posso trasformare quello che sto facendo in qualcosa di utile per il prossimo concerto o pezzo, evitando che mi offrano scuse per non farlo. Tra queste, per esempio, la cocaina».
Quale motto per cominciare il 2013?
«Questo: niente scuse! Io la guerra l’ho cominciata anni fa, licenziandomi dai primi lavori, scappando dalla provincia. Prendo una citazione da Tolstoj: “Il fato crea l’occasione, il genio ne approfitta”. Di occasioni ne avete, ma per cogliere quella giusta non bastano violenza e rifiuto. C’è bisogno di un’altra parola d’ordine: è ora di mettere ordine».
Scusi?
«Sì, dopo il caos arriva l’ordine. Io sono andato avanti. La controcultura che cantavo (Controcultura è il titolo del suo precedente disco, ndr) adesso è dappertutto. L’indignazione è nell’aria, la guerra personale è partita e diventata di molti. Ma occorre rallentare. Abbiamo bisogno di capire che cosa ci serve veramente, tempo per decodificare quello che ci piove addosso. Troppi stimoli, sessuali, musicali, tutti: ma le nostre potenzialità sono limitate. In particolare nei giovani: non hanno ancora gli anticorpi. Sono per la selezione. No, selezione no: troppo fighetto».
Sobrietà?
«No, troppo da prete. Insomma, ha capito».
Come dice nel singolo Pronti, partenza, via!, siamo in un Paese bloccato ed è ora di scattare: «Come gli Abba / In Italia gridi Mamma Mia! / Ma dalla rabbia / Sfondiamo la gabbia / Pronti, partenza, via!».
Via verso cosa?
«Verso la passione! Che ti fa scegliere. Diventare categorici. Scartare. Non i regali, ma ore su Internet, la musica inutile».
E il ritornello «Monti via!», ora che va via davvero, cosa vuol dire?
«Non mi sento di dare consigli di politica, io non voto, non ho nemmeno il certificato elettorale. Una persona vota se crede nella politica, io invece penso che in Italia il potere non sia gestito dalla politica ma da una super casta che manovra i politici come burattini, una cerchia ristretta di super potenti. Visti anche gli sviluppi di questi giorni, vedo il Paese come lo descrivo nel mio singolo: facciamo tutti finta di essere protagonisti senza capire davvero di essere spettatori passivi. “Votavi Lega? Sì? Prega / Votavi Reagan? Ora chi? Belén? Megan?”, scrivo nella strofa. Non importa che cosa pensiamo, basta che consumiamo. Sono convinto che la gente la pensi come me: noi non contiamo niente. Il Paese non si mette più in moto. E la vera ri-partenza – Pronti, partenza, via! – è fuori dalle possibilità. Devono prima essere eliminati ingranaggi che girano per un loro tornaconto. Più sprechi il tuo tempo a tentare di capire la politica, meno risultati otterrai nella vita. Non voglio passare per disfattista o per anarchico, credo piuttosto che questo sia il nuovo modo di ragionare, tra poche settimane siamo nel 2013, questo è il futuro».
Nel servizio fotografico una posa mi colpisce: finirà in copertina. Lui fa con la mano uno scanzonato saluto militare, e sorride.
A che cosa stava pensando?
«Sorrido perché sto facendo quello che mi piace e che mi dà tranquillità. Ho capito che sono felice e mi realizzo solo con la musica. Questo disco è arrivato perché mi dovevo una spiegazione profonda, per unire le mie due metà. Quella che sono adesso e quella che sarò tra un anno, dopo altri concerti, alberghi, una vita sballata con gente che pretende e insegue. Ma non ho più paura, perché so che posso passarci attraverso. Come se avessi trovato un filo da tenere sempre stretto».
Egocentrico? Un po’. La title track di Guerra e pace parla di un’Italia bloccata, ma si vede che quello che gli ha fatto male è la burocrazia che lo ha intralciato. I vari impicci che gli impediscono, dopo aver comprato con i soldi dell’ultimo tour cento metri a Milano, di farne uno studio: «A 35 anni il Paese mi ha bloccato / Ho comprato un seminterrato per fare lo studio / per lavorare / il mio futuro / È tutto fermo da mesi / il Comune non risponde / Non posso toccare neanche un muro». Conferma: «Se accendi la Tv è tutto un cambiamento, ma nella vita reale non gliene frega niente a nessuno, perché non fanno la vita che volevano. Allora tu, con la tua passione, diventi l’alieno».
Lei ha oltre mezzo milione di follower su Twitter: lo sa che il Papa ne ha collezionati altrettanti in appena 36 ore?
«Non li scrivo io: detto soltanto».
Che cosa chiederebbe al Papa?
«Di farmi un retweet».
Sa che su Google se uno digita «controcultura» esce sempre lei per primo? Preferisce scavalcare Tolstoj nelle ricerche del titolo Guerra e pace o scalzare Jovanotti dalla vetta della classifica Twitter?
«Sono entrambe cose che non si toccano, immateriali. È uguale» (Risposta intelligente a domanda cretina).
Difficile fare il rapper. Sei in equilibrio instabile, come su una fune. Se per cercare il successo perdi le tue radici, cadi. Come una corsa guardando avanti e indietro allo stesso tempo. «Per ora riesco, se no i giovanissimi se ne accorgerebbero subito».
E poi bisogna creare futuro usando uno strumento vecchissimo, la parola.
«Il problema semmai è la musica. Le parole sono dalla mia parte. Forse perché da piccolo sono stato molto solo. Mentre suonare voleva dire provare con la gente, uscire, con le parole te ne stai a casa. Se sapessi parlare, interagire, non farei il rapper. Devo scrivere bene. È la sola cosa che so fare».
Che cosa la scandalizza di più?
«Mi scandalizza che da noi si dica sempre che non ci sono soldi e non li si vada a prendere dove sono: al mercato nero, tassando la prostituzione, o facendo come in California, dove ci sono cento Medical Marijuana Center e ognuno versa ogni mese 20 mila dollari di tasse. Mi scandalizza che la politica non si occupi di tutto il tempo libero di chi non lavora. Che cosa faranno? Pregano? Si drogano?».
Che cosa la annoia?
«Milano».
E che cosa la appassiona?
«Le storie d’amore come Guerra e pace. Non l’avrei mai detto che sarei arrivato in fondo, e che la tristezza mi avrebbe commosso. I film con Anna Magnani. Tutto questo mondo in bianco e nero da cui, piccolo, fuggivo. Invece no. Anche la cover del mio disco sarà bianco e nera».
Parlando di storie d’amore: è cambiato anche il suo modo di amare?
«Piacere è facile. Farsi piacere qualcuna non lo è. Più che altro, ho sempre bisogno di essere accettato. Sto cercando di amare di più la gente: prima frequentavo troppe persone in troppo poco tempo. L’altro giorno, al ristorante, ho visto una barista carina. Fossi in una vita normale, sarebbe finita lì, sarei andato a casa pensando che mai avrei trovato il coraggio di parlarci. E invece è arrivato il cameriere a dirmi che voleva conoscermi, fare una foto: insomma potevo già scoparmela, scusi la parola, la sera stessa. Io sono tra questi due estremi, dov’è la verità? Forse la conosceva Tolstoj: “Sprecare tempo solo su quello che è logico”. Io sono e resto un solitario».
Solitario uguale single?
«Al momento vivo da solo. In effetti dopo due giorni che sto con una persona non ne posso già più. E, credo, viceversa».
Un errore di cui si pente?
«Quando sono sceso dal palco per scontrarmi con quel ragazzo durante il concerto (era l’estate 2011, vicino a La Spezia, uno spettatore lo aveva insultato, ndr). Il filmato è andato su YouTube, e sono passato per un violento».
E uno di cui non si pente?
«Gli studi. Ragioneria. Gli altri erano tutti sul pezzo, io non ho mai preso una sufficienza in contabilità. Anche quando si facevano le classifiche sul più bello della classe, finivo sempre penultimo. Insomma, mi hanno spronato a scappare a fare altro. Pensavo di essere il più sfigato di tutti, ma eccomi sulla copertina di Vanity Fair, alla faccia loro!».
Prima di andarsene con il solito cappuccio grigio calato sugli occhi, dice ancora una cosa alla Mister Fibra, citando un frammento di un brano infilato all’ultimo nel disco. S’intitola Che tempi e dice, più o meno: «Se ti comporti seriamente faremo un pezzo di strada insieme, tutti inculano tutti in Italia...». Prosegue in diretta: «Quello che senti in giro è questo, tante promesse a vuoto. Gli adulti continuano a darsi tutte le possibilità, come fossero loro i giovani. Prima dicevo di andare via dall’Italia, ora no. Rimanete, anche se è difficile. Restare ma venire fuori, imporsi. È dura, lo so: se io, che ho fatto girare un milione di euro, non riesco nemmeno a farmi uno studio in un anno...».
Ultima risposta alla Dottor Fabri: un rap disarmato. La domanda: che cosa penserebbe di Guerra e pace il Mister Fibra del primo album, Turbe giovanili?
«Riconoscerebbe che ha fatto la scelta giusta... Ci ho messo sei dischi per mettermi insieme così. Questo è il primo disco che, riascoltandolo, mi ha commosso. Sono ancora qui. E poteva finire peggio».