Fabrizio Salvio, SportWeek 24/11/2012, 24 novembre 2012
C’È CHI DICE DIMISSIONI
Domani, incrociando Zeman, cosa gli avrebbe detto?
«Niente. Mi sarei seduto con lui sulla stessa panchina».
E perché?
«Per farci due risate e sdrammatizzare».
Sarà per un’altra volta. Dopo quasi 4 me- si sulla graticola ("È bravo", "No, è scarso"; "Lo cacciano", "No, ti dico che non lo cacciano"), Giovanni Stroppa, 44 anni, all’esordio come allenatore di A, vedrà dal divano di casa il ritorno a Pescara, alla guida della Roma, del boemo, che a giugno ha riportato la città abruzzese nel massimo campionato, ricevendone in cambio amore eterno. Lui, l’ex Giovannino, ala-trequartista comparsa nel Milan di Sacchi e protagonista nel Foggia proprio di Zeman, si sarebbe accontentato di molto meno: un po’ di affetto dai tifosi, l’appoggio pubblico della società, soprattutto una squadra, se non migliore, in cui tutti almeno remassero nella stessa direzione. Invece, niente. E, dato che nel calcio paga sempre lo stesso, da domenica scorsa, incassata a Siena l’ottava sconfitta in 13 partite. Stroppa non è più il tecnico del Pescara. Ma non è stato licenziato: in un Paese in cui, dalla politica in giù, il termine "dimissioni" suona come una parolaccia, è stato lui a dire basta. Ha rinunciato al contratto e accettato il rischio di ricominciare da zero una carriera appena avviata. Solo per questo, merita ascolto.
Stroppa, perché dimettersi?
«Perché la mia professionalità non ha prezzo. So che il mio gesto è un qualcosa di unico. So anche che, pure nel nostro mondo, la prima regola è: mai rinunciare ai soldi. Ma io sono fatto alla vecchia maniera: testa alta e schiena dritta».
E perché lasciare proprio a Siena?
«Perché ho avuto la percezione che, prima ancora del mio lavoro, io stesso fossi un incompiuto. La squadra non mi seguiva più. Qualcuno, forse, mi ha seguito poco fin dall’inizio. Il livello tecnico del Pescara è sotto gli occhi di tutti, se poi in campo non metti nemmeno l’anima...».
Qualcuno le ha giocato contro?
«Non lo so. Se così fosse sarebbe dilettantesco, e non voglio usare aggettivi più pesanti. Sono stato calciatore anch’io e anch’io ho avuto allenatori che non mi stavano simpatici, ma non ho mai giocato contro nessuno. Non è solo una questione di dignità: è un fatto di intelligenza».
Dopo le dimissioni l’ha chiamata qualche giocatore? «No, nessuno».
Lei ha qualcosa da rimproverarsi?
«Niente. Ci ho messo tutto me stesso, dal primo giorno. In allenamento facevamo le cose come volevo io, in partita si perdeva la rotta».
Gira voce che lei sia stato troppo buono.
«Buono perché non alzo la voce? Se i muri potessero parlare, direbbero loro se sono stato troppo buono. E comunque non cambio per piacere agli altri. Il rispetto non consiste nell’uso del "lei". Un ventenne può darmi del "tu" e rispettarmi nei fatti più di un trentenne che si rivolge a me con un "signor mister Stroppa"».
Il presidente Sebastiani ha detto che adesso i giocatori devono tirare fuori i cosiddetti perché, testuale, "non c’è più il parafulmine".
«Sebastiani e il diesse Delli Cafri sono sempre stati dalla mia parte. Poi la società Pescara è fatta da 15-20 soci e non so se andassi bene a tutti. Certo avrei gradito una presa di posizione pubblica in mia difesa dopo la contestazione subita contro il Parma».
Non le è ancora andata giù, vero?
«La città intera ha gestito la cosa in maniera paesana. La domenica mattina i giornali locali pubblicano durata e cifre del contratto del mio presunto sostituto, Marino: tutto, compresi i nomi dei collaboratori che si sarebbe portato dietro. Poi, la contestazione della curva allo stadio: umiliante. Credo sia stata pilotata dall’esterno, Sono stati 90’ paradossali, strani. Dico "strani" ma vorrei usare una parola diversa. Prendere di mira tutto il tempo un allenatore in una situazione difficile non solo per lui, ma soprattutto per la squadra, che giocava contro una diretta concorrente per la salvezza, vuoi dire andare contro i propri interessi di tifoso. E parlo di una gara vinta 2-0».
Come ha reagito agli insulti di migliaia di persone?
«Sono stato male. Mai ricevuti tanti vaffanculo in una volta sola».
Andare sotto la curva a chiamare l’applauso?
«Sarebbe stato provocatorio».
E ruffiano.
«Appunto. Sono altre le sedi e altri i momenti, per fare i ruffiani. Sempre che uno ne sia capace».
Diceva: contestate me, ma lasciate in pace la squadra.
«Ai giocatori dicevo di essere fiero di prendere gli insulti al posto loro. La squadra deve stare tranquilla, e per esserlo va sostenuta. Ma quello che è successo prima e dopo la partita col Parma mi ha completamente delegittimato. Sono rimasto solo, ma proprio questo mi ha dato forza nei rapporti con la società. Non mi avrebbero mai licenziato, perché intorno a me già si era fatto il deserto».
Adesso sente di essersi liberato da un peso?
«No. La contestazione della piazza non c’entra niente con le mie dimissioni, e poi tutti quelli che incontravo per strada mi invitavano a non mollare. Ma gli insulti mi hanno fatto capire che il mestiere di allenatore posso farlo alla grande. Io vivo, per allenare, e le critiche fanno parte del gioco. Di più, mi hanno reso più forte. Mi sono dimesso perché la squadra aveva bisogno di una scossa e l’unico che potesse dargliela ero io, andandomene».
Aveva chiesto giocatori alla Kucka, si sarebbe accontentato di quelli alla Santana: non ha avuto gli uni ne gli altri. È per farsi perdonare che non è stata la società a mandarla via?
(ride di gusto) «In Italia sono pochi purtroppo gli allenatori che decidono il mercato. Figurati io che sono nato ieri».
Ha mai avuto la tentazione di dire: più di tanto questi giocatori non possono dare?
«Facciamo finta che mi sia venuta, ma tanto... Credevo nella squadra e avevo il dovere di allenarla al massimo».
Ma è vero che è meglio allenare i giovani, perché possono ancora essere plasmati secondo le proprie idee?
«I vecchi sono inquinati: dal percorso professionale fatto, dalle metodologie di lavoro cui sono abituati, dalle scaramanzie che si portano dietro. Se poi hanno ottenuto risultati facendo sempre le stesse cose, cambiare mette loro paura. Sta alla loro intelligenza capire che, facendo cose diverse, possono perfino migliorare».
È calcisticamente figlio di Secchi e Zeman: sicuro di non aver pagato anche una certa spregiudicatezza tattica?
«Sono figlio di tanti altri bravi allenatori: Capello, Zoff, Scoglio. Al Sudtirol, in LegaPro, l’anno scorso siamo stati la seconda o terza retroguardia per gol incassati. Il gioco? Ci davano retrocessi e siamo arrivati invece a un punto dai play-off. La verità è che tra A e B esistono parecchi gradini di differenza. Questo Pescara è stato costruito negli ultimi giorni di mercato, ha perso i tre giocatori migliori - Immobile, Insigne e Verratti - e ha tanti giovani. Io integralista? Sono uno che cerca di scegliere i migliori e metterli dove rendono di più. Forse ho perso del tempo a decidere, forse mi sono portato dietro dei pregiudizi perché ho sempre provato a giocarmela, forse è stata solo la miglior qualità degli avversar! a farci perdere certe partite».
A memoria non ricordiamo un altro allenatore della Primavera esonerato: a lei è successo al Milan. Perché?
«Bisogna chiederlo a chi mi ha esonerato. Io credo di saperlo ma è una situazione troppo complicata per spiegarla qui. Posso solo portare i numeri: per esempio, la vittoria in coppa Italia».
Si era pariate di lei come allenatore della prima squadra prima dell’arrivo di Allegri...
«Si era parlato di me anche come responsabile della metodologia del lavoro e della tattica, invece sono rimasto a casa avendo ancora un anno di contratto. Sono l’unico, nato e cresciuto nel Milan, a essere stato esonerato. Diventare allenatore del Milan per me era una missione».
Nel 2001 Sacchi annunciò che avrebbe smesso di allenare così: "Non si può morire di calcio, ne di stress". Guardiola ha preso un anno sabbatico, Mazzarri fa il controllo al cuore e annuncia che potrebbe fermarsi per un po’ anche lui... Voi allenatori siete diventati troppo sensibili alle critiche?
«Sono le critiche, troppo esasperate. Ma l’allenatore è sempre stato un uomo solo».
Prima e dopo la partita, dorme?
«Prima sì, dopo no, anche se ho vinto: ripenso a cosa non ha funzionato. Risultato e prestazione non sempre coincidono, nel bene e nel male. Passo la nottata a riguardarmi la partita. Caso mai dormo il lunedì tutto il giorno».
Moglie e figli si eclissano?
«Cerco di non portare il lavoro a casa. Ma la pressione la sentono pure loro. Quando si perde, la piccola di 6 anni mi fa i disegnini per consolarmi. Il maschio di 13, invece, mi massacra».
Rosa Maria Vijogini, life coach, sostiene che per un allenatore non esiste lo stress, ma (’ansia da prestazione e di non essere all’altezza. Lei si sente all’altezza della Serie A?
«Sì. E l’ansia da prestazione l’avverto solo a inizio stagione, quando bisogna costruire. I dubbi che ho sono relativi ai giocatori da mettere in campo e dove. E, anche quando ti senti sicuro, non basta. Prima della gara in casa contro la Lazio ero orgoglioso dei miei: avevano lavorato benissimo. È finita 3-0 per loro».
Ha chiesto spiegazioni ai suoi?
«Ho chiesto a me stesso perché la squadra fosse così vuota». La risposta se l’è data da solo domenica scorsa. E ha salutato.