Federico Rampini, D - la Repubblica 8/12/2012, 8 dicembre 2012
HILARY È D’ACCIAIO
[La Clinton stanca? Non ci crede nessuno. E tutti la pensano alla Casa Bianca] –
Avendo seguito Barack Obama nel suo recente viaggio in Birmania, Thailandia e Cambogia, gli ho visto vicina una Hillary Clinton in forma strepitosa. A poche settimane dal suo annunciato ritiro, il segretario di Stato è stata abbracciata con affetto da Aung San Suu Kyi, la Lady birmana premio Nobel della pace a cui la lega un’amicizia vera. Obama è stato generoso di riconoscimenti a Hillary, la sua ex avversaria che si è rivelata una partner formidabile da quattro anni. In extremis lei ha accettato perfino una missione impossibile, volando in Medio Oriente per la mediazione tra Israele e Hamas.
È talmente a suo agio, talmente sicura di sé, che finisco per partecipare anch’io al gioco che appassiona tanti miei colleghi americani: le scommesse sul futuro di Hillary. Pur avendo appena compiuto i 65 anni, la Clinton emana una tale energia e voglia di fare che quasi tutti le attribuiscono progetti di una “terza vita”. La giustificazione ufficiale con cui annunciò in anticipo che non sarebbe rimasta a dirigere il dipartimento di Stato nel secondo mandato di Obama era semplice, troppo banale: la stanchezza. Salvo alcuni amici intimi che giurano che è proprio vero (ma vengono considerati suoi “complici” per mascherare i piani reali), la maggioranza dei miei colleghi giornalisti qui la dà già in pista per preparare la candidatura alla Casa Bianca nel 2016. Di anni ne avrà 69, cioè sarà un anno più giovane di Ronald Reagan quando s’insediò alla Casa Bianca per il primo mandato; e molti americani considerano Reagan un grande presidente. E poi, si sa, le donne invecchiano meglio… Insomma, tutti se l’aspettano scatenata nel 2016, forse invincibile, e finalmente una donna alla Casa Bianca. Sarà che quando l’ho vista a Rangoon, nell’abbraccio con la Lady birmana, io ero reduce da 32 ore di volo sull’Air Press One, quattro scali (Washington, Anchorage Alaska, base militare Usa in Giappone, Bangkok, Rangoon) e un’avaria per stormo di uccelli in un motore. Sarà che avevo 12 ore di differenza di fuso orario tra il sudest asiatico e New York. Sarà che in Birmania faceva un caldo umido tropicale, per aspettare a casa di Aung San Suu Kyi ci avevano cosparsi invano di Autan anti-zanzare. Per tutte queste ragioni mi son trovato a dubitare per un attimo. Casomai fosse stanca davvero?
È stato calcolato che Hillary ha polverizzato ogni record storico dei suoi predecessori, superando la soglia dei cento Stati esteri visitati nel corso del suo mandato (alcuni più e più volte). Al confronto io sono un dilettante del vagabondaggio globale. Gia sento le obiezioni “dalla mia sinistra”: fare il segretario di Stato vuol dire avere un intero jet a disposizione, comodo letto e doccia a bordo, collaboratori che si fanno in quattro per semplificarti la vita, insomma è un viaggiare da “privilegiati”. Fino a un certo punto. Nel suo caso ai privilegi corrispondono altrettante responsabilità, e anche se lo status della Clinton può risparmiarle disagi e fatiche del comune mortale, d’altro canto c’e` un sovrappiù di stress per il tipo di problemi da risolvere, le aspettative enormi, l’attenzione continua, lo scrutinio severo dei critici e dei mass media. E poi il corpo umano ha le sue leggi, un segretario di Stato non può scaricare sul fisico dei collaboratori il suo jetlag. Chi fa da tempo la vita del nomade globale, me compreso, qualche volta ha la tentazione di sentirsi un po’ speciale. Ama far credere di avere una resistenza particolare. Di aver trovato il segreto per sconfiggere il jetlag, per arrivare fresco e pimpante dopo notti in bianco, traversate intercontinentali in aereo. Ognuno di noi in effetti ci prova, e con l’esperienza alla lunga lunga si scoprono tecniche di sopravvivenza “su misura”. C’è chi affronta l’ennesimo volo transoceanico con un bicchiere di vino, chi usa la Melatonina o la Valeriana, chi si passa consigli su questo o quel farmaco. Anch’io posso vantarmi di possedere qualche piccolo trucco del mestiere. Al termine di voli molto lunghi, con vaste differenze di fuso orario, la mia cura preferita per rimettermi in pista è… scendere in pista, cioè andare a correre, possibilmente nelle ore in cui c’è il sole: luce naturale, sport e aria aperta sono un regolatore per tutti i cicli dell’organismo. Oltre al jogging mi aiuta lo yoga, che placa gli acciacchi inflitti alle giunture dalle lunghe ore d’immobilità in una cabina. In volo mangio possibilmente frutta e verdure (anche per fare il pieno di vitamine: pochi luoghi sono così infestati di germi come una cabina d’aereo).
Potrei andare avanti a lungo su questo tema, ma so benissimo che c’è un limite al bluff con se stesso e la propria fatica. A volte i trucchi funzionano, a volte meno. C’è la notte in cui dormi come un sasso in aereo, e quella che ti va storta. Può succedere che io assorba il jetlag senza accorgermene, ma non mi è ignota la “sindrome del manager giapponese”, testa che ciondola e palpebre che si chiudono irresistibilmente durante la riunione, o la sera al teatro. Un po’ di comprensione per Hillary: la metà della metà può sfiancare un toro.