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 2012  dicembre 12 Mercoledì calendario

Quando andava in coma diabetico (troppo spesso), Riccardo Schicchi mi chiamava al capezzale e mi diceva con un rantolo «Porti in ospedale una delle mie artiste e chiami i fotografi per farci paparazzare»

Quando andava in coma diabetico (troppo spesso), Riccardo Schicchi mi chiamava al capezzale e mi diceva con un rantolo «Porti in ospedale una delle mie artiste e chiami i fotografi per farci paparazzare». Se potesse parlare ora, ovunque sia, mi starebbe col fiato sul collo, un po’ seccato perché i cellulari che crede di avere ancora in tasca non squillano mai. «Venda più articoli che può, si faccia pagare bene, sfrutti la mia morte», mi direbbe concitato, ricordandomi poi di versargli la percentuale d’agenzia. E parlerebbe come se la sua fosse una condizione temporanea, risolvibile in una resurrezione in tre giorni. D’altro canto, anch’io che da anni non ero più la sua assistente ma solo una vecchia amica, pensavo inconsciamente che un giorno sarei tornata a lavorare con lui, come quando si rimpiange la pace del bel vivere senza pensieri e senza bollette, a casa dei genitori. Ora, l’impresa più dura è spiegare alla gente che Riccardo Schicchi non era la persona che sembrava anche a me, prima di trascorrere con lui dieci ore al giorno per anni e anni. Riccardo non era maschilista. Per lui, le donne erano meravigliose creature superiori e le invidiava perché, se lo vogliono, possono associarsi senza imbarazzo a un mondo rosa fatto di farfalle, piume, abiti velati e svolazzanti, pesciolini colorati. Adorava l’iconografia mielosa dei manga. Sarebbe andato avanti per secoli a fotografare Cicciolina e la sua collezione di coroncine senza diventare un pornografo, se avesse potuto. Pochi sanno che l’entrata nella pornografia, per Schicchi, è stato un passo difficile e forzato. Anche all’apice della sua carriera, gli editori e i produttori si lamentavano perché non gli riusciva proprio di riprodurre in foto e in video le fantasie degradanti che andavano per la maggiore. Ma lo perdonavano perché scovava e creava personaggi fantasiosi, perché era celebre. A Riccardo Schicchi piaceva stupire, non mortificare. «Siamo degli amorali», ripeteva sempre, «non immorali». Se ora mi legge, sarà arrabbiato perché sto rivelando qualcosa di lui che non voleva si sapesse. «Non dobbiamo mai giustificarci delle nostre scelte», era uno dei suoi motti. E non sopportava le riabilitazioni postume. Ma pazienza. Esigente e accanito sul lavoro, mi ha insegnato a scrivere articoli al suo posto quando era troppo impegnato (sempre), mi ha abituato a lavorare di buona lena (sempre), a camminare a testa alta, a non prendere mai troppo sul serio niente e nessuno, nemmeno me stessa. E a non rimandare mai a domani quello che devi fare subito, prima che a qualcun altro venga la tua stessa idea. Ormai, con lui a Roma e io a Milano, ci sentivamo periodicamente al telefono. Provavo un po’ di senso di colpa perché da quando avevo preso il volo verso altri lidi, per i quali lui mi aveva spianato la strada, nessuno lo cazziava più quando maltrattava la sua salute. L’ultima volta che ci siamo parlati, senza dirgli ancora che stavo tramutando in romanzo tutti i ricordi che avevo raccolto nei nostri anni insieme, ho detto solo che gli stavo preparando una bella sorpresa. Volevo mettergli in mano il libro una volta uscito perché adorava che si parlasse di lui e delle sue star. Non avrebbe più potuto leggerlo, il mio libro, perché, per orgoglio non mi diceva di non vederci più, e io fingevo di non saperlo. Ma sarebbe stato contento. Chissà. Magari quando uscirà, lui che era tecnofobico e sostenitore del cartaceo si farà prestare da Moana - che invece era amante delle novità -, un Kindle Celestiale per leggerlo con calma. Seduto in una delle tante pasticcerie dell’aldilà dove potrà sbafare senza pensieri tutti i bignè che ha guardato nelle vetrine per decenni. E per i quali, forse, avrebbe dato in cambio persino la cosa che l’uomo comune gli invidiava di più: vivere circondato da un sacco di sexy star.