Maurizio Porro, Corriere della Sera 12/12/2012, 12 dicembre 2012
IL DESTINO DELLE DIVE ADAGIATO SUL SOFA’
Beato chi se lo fa il sofà, diceva con cinemascopico sorriso Sabrina Ferilli in uno spot, ma ogni riferimento al libro Il sofà del produttore di Selwyn Ford (pseudonimo di due giornalisti inglesi), dove si parla dei sofà privati degli studios di Hollywood, era davvero casuale. Perché la poltrona va scissa sullo schermo, come se fosse quella di Freud e quanti divani abbiamo visto negli studi degli psicanalisti da Woody in poi: da una parte la presenza del mobile poltrona in centinaia di film di ambiente borghese in quelle grandi sale upper class dove si sono sedute Bette Davis e Katharine Hepburn sorseggiando cocktail versati dal cameriere di colore; dall’altra il vecchio mai tramontato rito del «pedaggio» sessuale nella storia del cinema, con i privè dei grandi producers Usa come Louis B. Mayer o Carl Laemmle, del mitico miliardario aviatore nevrotico Howard Hughes o Harry Cohn, tutti con i loro harem privati a portata di mano, a fianco dell’ufficio col dittafono per la segretaria.
Sembra che non dovessero neanche insistere molto per usare il sofà con quelle ragazze trovate ai grandi magazzini: Joan Crawford aveva avuto una carriera di porno star, Lana Turner scoperta in gelateria fu portata subito negli studi, Marlene Dietrich amava dar scandalo, Lupe Velez era la più richiesta ai parties, Gene Tierney era rivale di Rita Hayworth nel cuore traboccante di dollari di Alì Khan, fino alla più nota, Marilyn Monroe il cui destino è stato segnato anche dal sofà. Certo che di poltrone al cinema ne abbiamo viste tante ma la più buffa è quella ad effetto speciale alla fine della seconda puntata del nuovo Sherlock Holmes quando Robert Downey jr si mimetizza in una poltrona, confondendosi con la stessa stoffa e rendendosi invisibile. E che dire di quella poltrona di vimini diventata il simbolo di un’icona del sesso «demi hard» di Emmanuelle, che vi stava perennemente seduta nei poster del famoso film? E nell’horror nessuno può dimenticare quella vecchia poltrona a dondolo e girevole che sta nella cantina hitchcockiana di Psycho e alla fine, rotando, mostra lo scheletro edipico della mammina cara di Anthony Perkins.
Ogni genere di film ha i suoi mobili e i suoi architetti e così le poltrone eleganti sono quelle delle case delle commedie sofisticate e dei melò, sui cui braccioli si appoggiano whisky e si piange spesso e volentieri: gli interni di «Come le foglie al vento» con Rock Hudson, la Bacall, Dorothy Malone o quelli di Lana Turner nello «Specchio della vita». I nostri cari film neorealisti al massimo ci mostrano invece sedie e spesso di cucina, dove bambini magri post bellici fanno i capricci ed esibiscono moccoli al naso e ginocchia sbucciate. Poltrone dei commissariati, spartane, di plastica e omologate? Sono ormai uno stereotipo reso immortale dall’accavallamento di gambe di Sharon Stone che in quella famosa scena di «Basic instinct» dimostra che si può fare a meno di mutandine, guepière e pannolini. Le poltrone sono state frequentate in tutto il periodo anni 30-50 quando Hollywood proibiva il bacio in bocca e la visione del letto matrimoniale, quindi si faceva tutto in poltrona letto: quanti ospiti inattesi hanno dormito sul divano, quanti amici improvvisati si sono adattati per una notte, quanti dopo sbronze sono stati consumati sui cuscini. A parte i titoli che le chiamano in causa in prima persona («Una poltrona per due», «Tre sul divano», «Il mistero delle 13 sedie»), ci sono poi le ciniche tavolate ovali dei consigli di amministrazione circondate da poltrone eleganti e omologate all’industria senza cuore, dove anni fa si era seduta nella «Sete del potere» Barbara Stanwyck e che oggi è diventato un luogo comune dove sono esplose crisi finanziarie (vedi il film sullo scandalo delle banche americane d’inizio crisi).
E poi c’è un medio-corto di Pippo Delbono, «Blue sofa» che narra la strana storia di tre fratelli che ogni giorno, dalle 17 alle 20 si siedono sul divano di velluto blu ad aspettare la morte, certi che nel resto della giornata non potrà accadere loro nulla di male. Ma il sofà, cinematograficamente parlando, è proprio quello dell’attricetta presa al lazo dal produttore potente che ha il suo separé o anche dal dilettante allo sbaraglio morale che irretisce l’ingenua ragazza che tutti noi conoscevamo bene. Tra i più testardi i comici dell’era paleolitica del cinema, come Mack Sennett, che non se ne faceva scappare una, o Fatty Arbucke, condannato per aver violentato una fanciulla in un’orgia della Hollywood Babilonia. Da qui la rivincita della maggioranza silenziosa che impose il severo codice Hays per un buon comportamento ipocrita, durato fino agli anni 50, quelli del matriarcato gentile casalingo di Doris Day che le poltrone invece le spazzolava con l’aspirapolvere segnando il cambio d’epoca.
Maurizio Porro