Federico Rampini, la Repubblica 12/12/2012, 12 dicembre 2012
IL SORPASSO CINESE
Soft power, capacità di “formare coalizioni basate su interessi comuni”, autosufficienza energetica. Sono le carte che l’America si giocherà, per reggere lo shock del sorpasso cinese misurato sul Pil. Il rapporto che prevede il primato della Cina nella stazza economica ha una credibilità elevata: lo pubblica il National Intelligence Council. “Global Trends 2030” è il risultato della cooperazione tra le 16 agenzie federali di intelligence. Ogni quattro anni arriva sulla scrivania del presidente degli Stati Uniti. Scopo del rapportoèproprio quello di fornire scenari credibili per le strategie della Casa Bianca. Cheannunciilsorpassocineseentroilprossimodecennionon è un vero shock per l’America. Quattro anni fa il rapporto precedente conteneva la stessa profezia. Anzi, rispetto all’edizione 2008, divulgata proprio mentre gli Stati Uniti sprofondavano nel crac sistemico della finanza, oggi il tono è meno apocalittico.
Alla vigilia del secondo “insediamento” ufficiale di Barack Obama, che lo proietta per altri quattro anni al governo, quest’America appare un po’ più fiduciosa nelle proprie forze. E soprattutto, più consapevole delle debolezze cinesi.
Resta il fatto che siamo ad una svolta storica, il Global Trends paragona la nostra epoca alle guerre napoleoniche, o alla caduta del Muro di Berlino: due periodi di “tramonti imperiali”, rotture di equilibri secolari, transizioni instabili e turbolente. In questa fase non emerge un nuovo leader, l’unica certezza è il declino del vecchio ordine. Lo chiamarono Pax Americana, culminò con la “fase unipolare” dopo il crollo dell’Unione sovietica. Non potrà prolungarsi una Pax Americana quando l’Asia avrà un Pil superiore a quello di Stati Uniti e Unione europea sommati fra loro. Lo scenario elaborato dal National Intelligence Council convalida la visione geostrategica di Obama. Non a caso lo hanno battezzato “il primo presidente del Pacifico”: e non solo per ragioni biografiche (infanzia e adolescenza trascorse fra le Hawaii e l’Indonesia) ma soprattutto per la sua lucida visione di un baricentro della storia destinato a spostarsi in quell’area del mondo. Alla quale il presidente ha dedicato i suoi viaggi più importanti: non solo in Cina ma in India, Indonesia, Corea, Giappone, Birmania.
Proprio dalle sue lunghe tournée diplomatiche in Oriente, il presidente ha tratto una convinzione che oggi viene confermata nel Global Trends 2030. Come dice uno degli autori, Christopher Kojm, «nessun’altra potenza può replicare il ruolo svolto dagli Stati Uniti, in qualsiasi scenario realistico». Più ancora delle tradizionali forze degli Stati Uniti — la democrazia,
la società aperta, l’immigrazione, le università, l’innovazione tecnologica — il National Intelligence Council ne sottolinea una che contiene l’essenza del soft power: è la «capacità di formare coalizioni », cioè di farsi portatrice di interessi che altre nazioni condividono. Vi si aggiungono altri due elementi, «l’eredità del passato», e la «riluttanza della Cina ad assumere un ruolo globale». Lo si è visto nella sostanziale marginalità di Pechino durante le fasi più acute della crisi dell’eurozona. La Repubblica Popolare avrebbe avuto notevoli risorse finanziarie da mettere sul tavolo, invece lo ha fatto col contagocce e senza diventare un attore influente. Al contrario Obama si è prodigato nel tessere una rete di relazioni con Angela Merkel, François Hollande, Mario Monti. Una situazione ancora più clamorosa è quella che si verifica in Asia stessa. Come dice un altro autore del rapporto, Mathew Burrows, «la Cina può essere il peggior nemico di se stessa, in Asia i suoi comportamenti hanno rafforzato la domanda di una presenza americana». È accaduto, per esempio, quando Pechino ha rivendicato in modo aggressivo i giacimenti offshore in zone contese: alzando la tensione non solo con un rivale storico come il Giappone ma anche contro le Filippine e il Vietnam. Il risultato più clamoroso è stata l’offerta di basi militari vietnamite agli Usa: una “luna di miele” tra due nazioni che si combatterono ferocemente, e oggi sono unite dall’obiettivo di contenere l’espansionismo cinese. Non a caso il rapporto disegna un “secolo asiatico” più che dominato dalla sola Cina. È tra i vicini della Repubblica Popolare, che la diplomazia di Obama ha lavorato più alacremente per costruire un “cordone sanitario” di alleati: a cominciare dall’arco delle democrazie che include Giappone, Corea del Sud, Indonesia, India.
Due altre carte su cui l’America sente di poter contare, sono evidenziate in questo scenario. Da una parte c’è l’autosufficienza energetica, che gli Usa conquisteranno in meno di vent’anni, superando l’Arabia saudita come produttori di petrolio e la Russia nel gas naturale. Sarà un fattore di sicurezza, tanto più che il Global Trends 2030 vede nella contesa per le risorse naturali un futuro detonatore di conflitti. Un’altra evoluzione che rassicura gli Stati Uniti è tecnologica: con i progressi nella robotica, nelle nanotecnologie e nella “stampa tridimensionale”, diminuirà la convenienza a delocalizzare l’industria manifatturiera. Nell’immediato i segnali sono quasi impercettibili, certo: la re-industrializzazione americana già iniziata non impedisce che il deficit commerciale resti elevato. Il disavanzo bilaterale Usa-Cina a ottobre ha toccato un nuovo record storico a quota 29,5 miliardi di dollari.
La debolezza strutturale che preoccupa Washington, è sulle prime pagine dei giornali proprio ora. È l’immenso debito pubblico (15.500 miliardi di dollari), in parte finanziato dalla banca centrale cinese con le sue poderose riserve valutarie. Il debito americano, e la strategia per ripianarlo, sono al centro del braccio di ferro tra Obama e la Camera dei deputati a maggioranza repubblicana. Trent’anni di egemonia liberista hanno lasciato traccia anche in un settore da cui dipende la futura competitività americana: la scuola pubblica continua a perdere colpi, la qualità dell’apprendimento alle elementari o alle secondarie è superiore in molte nazioni asiatiche. La fragilità è anche politica, si affrontano due visioni della società americana, del patto generazionale, della pressione fiscale “sostenibile” e compatibile con la crescita. Sono tutti problemi che la Cina non ha... per adesso. Il National Intelligence Council segnala però che il colosso asiatico è sottoposto a un rapido invecchiamento demografico che farà esplodere i bisogni di servizi sociali, sanità, pensioni. E il sistema politico di Pechino non sembra il più adeguato a fornire la “governance” adeguata all’orizzonte 2030, in un mondo che sarà dominato dal ceto medio (3 miliardi la “middle class globale”). A confortare gli americani, il Global Trends 2030 aggiunge che l’Europa e la Russia diventeranno ancora più periferiche. Mentre l’integralismo islamico è destinato a estinguersi, «come le ondate di violenza anarchica nell’Ottocento, o il terrorismo rosso degli anni Settanta». Altri gruppi radicali però potrebbero spuntare all’orizzonte, magari come conseguenza delle emergenze ambientali, dei conflitti per le risorse naturali.