Emiliano Liuzzi, il Fatto Quotidiano 10/12/2012, 10 dicembre 2012
“NON SAREI STATO ‘PUPI’ SENZA I CARATTERISTI”
È qualcosa che va oltre il talento, il cinema di Pupi Avati. Ci sono attimi che raggiungono vette altissime negli occhi malinconici di Alessandro Haber o nel sorriso beffardo di Diego Abatantuono, nelle sofferenze mentali di Francesca Neri e in quelle fisiche di Fabrizio Bentivoglio. Attimi che ti fanno compagnia per un’intera esistenza, fotogrammi che ti porti appresso nel cuore, talvolta senza saperlo. “Un attimo”, dice il maestro prima di rispondere alle domande, “devo abbassare la musica”. Il suo cruccio, quello di non essere diventato un grande jazzista quando capì, in una Bologna che cresceva a dismisura, che c’era un piccoletto di nome Lucio Dalla che col clarino faceva cose che lui non avrebbe mai fatto.
Fu così che, persa la strada del jazz, il talento di Pupi aprì il sipario sul cinematografo. Non il suo primo amore, perché quello è la musica, ma sicuramente l’amore della sua vita, quello con cui ha trascorso mesi, anni, grandi e miseri giorni. Come sempre è gentile, Pupi Avati. Disponibile, mai riottoso. Non potrebbe essere né un genio né un talento. Poi la telefonata che gli facciamo lo riempie di gioia, perché parliamo di caratteristi. E forse non c’è regista che meglio di lui può raccontare chi è l’attore non protagonista.
“PURTROPPO, e dopo 40 anni posso permettermi di dirlo: il caratterista è scomparso, ha lasciato spazio al cabaret. Non c’è più la coralità nei film, solo una persona alla quale si costruiscono attorno le battute. E gli attori sono bulimici, insaziabili, egocentrici. È qui che il regista dovrebbe intervenire. Ma questo accadeva nella commedia di costume. Quella strada che però io mi ostino a percorrere: caricare sulle spalle di attori minori, e che minori non sono, il ruolo di protagonisti. Se in Regalo di Natale vogliamo individuare come protagonisti Diego Abatantuono e Carlo Delle Piane, al loro fianco avevano grandi attori che portano il nome di Alessandro Haber e Gianni Cavina che prendono il film in braccio e lo portano dove il regista vuole”. Sembra il discorso di un manager, non di un talento. Ma anche questo devi saper fare dietro alla macchina da presa. “Oggi”, continua Pupi Avati, “quello che succede è molto semplice e intuibile anche al grande pubblico: c’è un attore che arriva direttamente dalla televisione, e su quello si ricama. I produttori vogliono spesso che sia così. Ottocento copie a Natale, quaranta milioni di incassi. Il risultato è mediocre. E non solo. Gli attori saltano dal piccolo al grande schermo senza sapere cosa sia la gavetta, il sapore della crescita professionale”.
Già la gavetta. Con lui l’hanno fatta in molti. La fece Lucio Dalla, l’ha fatta Cesare Cremonini, in tempi più recenti, attori per caso e per magia. Ma la macchina da presa ha trasformato Abatantuono in un fior di attore: prima che finisse di fronte al suo obiettivo, quello di Pupi, come semplicemente i cinefili lo chiamano, era l’attore che proseguiva la strada che gli aveva tracciato il cabaret, il Derby di Milano, quel sottobosco dove Felice Andreasi e Enzo Jannacci, insieme a Beppe Viola, inventarono il terrunciello, quella maschera che funzionò benissimo, ma che rischiava di restargli appiccicata addosso come l’unico marchio di fabbrica. Invece ci sono due Abatantuono: quello prima di Pupi Avati, relegato a ruoli da botteghino, e c’è il Diegolone, come lo chiamava Beppe Viola, dopo Pupi Avati. Un fior di attore, capace fior di ruoli drammatici. Un po’ come è accaduto ad un Antonio Albanese. Invece, non c’è stato un “dopo” per Christian De Sica, nonostante sia passato, ma forse troppo tardi, dal cinema di Avati. Niente caratteristi vuol dire niente comprimari. E nessuna gavetta, quella che ti forma anche strutturalmente. “Non ne parliamo, sono assolutamente scomparsi, tranne che in rare eccezioni. Non esiste più un Mario Castellani che offriva la sua spalla a Totò perché Totò riuscisse a dare il meglio. Non parliamo poi quello che Totò riuscì a creare con Peppino De Filippo, quel gioco di rimbalzi , le lunghe sequenze dove non si capiva chi fosse il protagonista, la complicità e la sinergia. Io in Regalo di Natale, ma in molti altri film questa coralità ho cercato di ricrearla. Il film è un insieme. Quello che hanno dato al cinema personaggi come Turi Pandolfini, Tina Pica, Tiberio Murgia o Capannelle, Marisa Merlini o Angela Luce sono ormai un ricordo molto lontano. Ma a rimetterci sono gli attori stessi che vengono travolti da questo tipo di cinema. Ne va della loro credibilità”.
CONTINUA, con un sottofondo creato dal jazz, la lunga chiacchierata con Avati. Illuminante su quello che accadeva ieri e su quello che invece accade oggi. Su un cinema, quello italiano, che poteva permettersi di toccare i piani alti, la nobiltà. Il cinema che si scrive con la C maiuscola, non semplicemente bollato come nicchia, che vuol dire tutto e niente. E dal cappello dei ricordi del maestro sbucano fuori anche il De Sica padre, Vittorio, o il Mario Monicelli dei Soliti Ignoti. Un’altra commedia. L’eccellenza di quell’Italia che negli anni Cinquanta ruotava attorno a Cinecittà e che oggi ha demolito un’industria. Sfregiata e denudata.