Marco Fortis, Il Sole 24 Ore 11/12/2012, 11 dicembre 2012
QUEL NEGOZIATO CHE NON CI SARÀ
La fine anticipata del Governo dei "tecnici" è un danno netto per l’Italia, non solo perché lascia in mezzo al guado diversi iter legislativi cruciali e riporta pressione sullo spread ma anche perché si allontana la possibilità per il nostro Paese di monetizzare i suoi successi sul fronte dei conti pubblici chiedendo all’Europa più impegno per la crescita. A questo avrebbe dovuto dedicarsi il premier Mario Monti nelle sue ultime settimane, forte del recupero di credibilità internazionale. Mentre ora ritornano invece rocambolescamente sulla nostra scena politica interna posizioni populiste antieuropee che rischiano di far precipitare l’immagine dell’Italia all’estero allo stesso punto in cui il Governo Berlusconi l’aveva miseramente lasciata un anno fa e di vanificare i sacrifici fatti dagli italiani per risalire la china. Diversi indicatori mettono in evidenza la gravità di una recessione economica che in Italia è stata enormemente amplificata dalla politica del rigore senza crescita abbracciata dall’Eurozona. Il più preoccupante di tali indicatori è l’aumento del tasso di disoccupazione complessivo e di quello dei giovani, ma colpiscono anche l’agonia dell’edilizia e la caduta della produzione industriale del nostro Paese, quest’ultima avvenuta non per mancanza di competitività (visto che l’export tiene) quanto per il crollo della domanda interna causato dall’eccessiva austerità. Uno scenario che espone settori importanti, come ad esempio quello del mobile, al rischio default. Nel gestire la crisi, l’Eurozona ha compiuto un fondamentale errore. Fin tanto che la cura del rigore è stata applicata ai 3 Paesi "periferici" - secondo logica, visto lo stato disastroso dei loro conti pubblici, anche se con poca solidarietà - la domanda aggregata interna europea ha comunque retto discretamente perché Grecia, Irlanda e Portogallo tutti insieme hanno una popolazione relativamente piccola. Viceversa, quando la sfiducia dei mercati si è estesa a Spagna ed Italia, più a causa delle incertezze sul futuro dell’euro che non per una effettiva pericolosità dei fondamentali finanziari dei due Paesi (se si eccettua la fragilità delle banche spagnole), la frenata dell’economia continentale è stata inevitabile. Infatti, aver preteso di applicare alla Spagna ed ancor più all’Italia "cure da cavallo" analoghe a quelle imposte ai Paesi "periferici" è stato poco avveduto, in quanto la crisi di domanda interna dell’Eurozona si è allargata di colpo, a causa di tali "cure", ad altri 107 milioni di consumatori. A questo punto vi è stato anche un corto circuito degli scambi di merci e servizi intracomunitari con un effetto moltiplicativo depressivo di cui hanno finito col fare le spese le stesse esportazioni tedesche che dalla scorsa estate sono in flessione. È chiaro che l’Eurozona ha bisogno non solo di rigore finanziario, sulla cui necessità non si discute, ma anche di prospettive di crescita e di fiducia nel futuro. Per aver fatto diligentemente i propri "compiti a casa" ed avendo avuto fino a poche ore fa un premier credibile con pieni poteri, l’Italia dei "tecnici" avrebbe potuto essere assoluta protagonista in Europa sul fronte del rilancio dello sviluppo e degli investimenti facendosi promotrice di progetti di EuroUnionBond e Project Bond come quelli illustrati su queste colonne da Alberto Quadrio Curzio. Il Presidente del Consiglio Mario Monti avrebbe potuto occuparsi non solo del rilancio della crescita "Europa su Europa" ma anche "Italia su Italia". Per farlo egli avrebbe avuto a disposizione almeno dieci buone carte per pretendere da Bruxelles che fosse "rivisto" l’irrealistico ed intempestivo obiettivo del pareggio di bilancio "anticipato" al 2013 chiesto dall’UE all’Italia e che Monti stesso ha ereditato. Un obiettivo troppo oneroso, che invece di migliorare il nostro rapporto debito pubblico/PIL, paradossalmente nel 2012 lo ha fatto peggiorare di 5,8 punti, principalmente a causa della caduta del PIL. L’Italia non deve certo derogare dalla linea del rigore, ma gioverebbe a tutta l’Eurozona che tale rigore (impostoci sulla spinta emotiva della crisi di credibilità in cui eravamo caduti nel 2011 più che per fattori economici razionali) fosse meglio graduato nel tempo, senza provocare un esagerato e troppo prolungato shock da domanda interna al nostro Paese. L’azione del governo Monti sul fronte dei conti pubblici non può essere minimamente messa in discussione da chi ci valuta a livello internazionale. È stata un’azione così efficace (così come lo sforzo diligentemente fatto dagli italiani per assecondarla) da far meritare al nostro Paese almeno una piccola pausa per poter rifiatare un po’ sul piano finanziario, pur senza interrompere nemmeno per un solo secondo il cammino delle riforme ed anzi facendo di più sul fronte della lotta contro l’evasione fiscale, il peso della burocrazia, gli sprechi ed i costi della politica. Se consideriamo ciò che è avvenuto dal 2008 al 2013 (sulla base delle ultime proiezioni della Commissione Europea) e prendiamo come metro di paragone l’Eurozona più Stati Uniti e Gran Bretagna, cioè in totale 19 Paesi, l’Italia può vantare 4 indici statistici eccellenti: e è salita dal 10° al 5° posto nella classifica per miglior deficit/PIL ed è già nei limiti dei parametri di Maastricht; r è salita dal 7° al 1° posto assoluto per miglior avanzo primario/PIL; t ha avuto una crescita del rapporto debito pubblico/PIL fino al 2011 del tutto simile a quella della Germania ed in seguito acceleratasi un po’ solo per la contrazione del PIL;►ha avuto la minor crescita percentuale del debito pubblico espresso in valori monetari tra i 19 Paesi considerati. A questi 4 indici di tendenza che rendono non solo l’azione svolta da Monti ma l’Italia stessa "credibile" a livello internazionale ed in condizioni di pretendere da Bruxelles almeno un punto di PIL di margine temporaneo di manovra sulla finanza pubblica (da destinare già nel 2013 alla crescita e/o a minori tasse), si affiancano altri 6 indici strutturali importanti: i negli ultimi 20 anni (dal 1993 al 2013) nessun Paese al mondo è stato capace di generare, come ha fatto l’Italia, un avanzo primario cumulato di 690 miliardi di euro, a dimostrazione del gigantesco sforzo di aggiustamento finanziario di lungo periodo sopportato dal nostro Paese, anche in termini di risorse sottratte alla crescita; o il nostro debito aggregato (di famiglie, imprese e stato) è quello cresciuto di meno in punti di PIL dal 1995 al 2011 assieme a quello tedesco; p il nostro debito pubblico "estero", cioè detenuto da non residenti, nel 2012 è pari al 45% del PIL, un valore più basso di quelli di Germania (50%) e Francia (58%), per non parlare della Grecia (dove è al 99%); a nello stesso tempo il nostro debito pubblico "interno", cioè finanziato da residenti, è pari al 49% della ricchezza finanziaria netta delle famiglie, dunque è più che sostenibile dai nostri "mezzi propri" (mentre in Spagna, per un confronto, tale rapporto si è spinto fino all’84% ed in Grecia è addirittura al 167%); s il debito delle famiglie italiane in percentuale del PIL è il più basso tra i Paesi avanzati; d la nostra posizione finanziaria internazionale netta (cioè lo stock di debito totale privato e pubblico che abbiamo verso l’estero) è intorno al 20% del PIL: un dato non molto superiore a quelli di Francia e Gran Bretagna ed inferiore a quello degli Stati Uniti (27%), nonché largamente al di sotto del valore massimo di soglia del 35% indicato dalla Commissione Europea. Potevano e possono bastare 10 carte come queste all’Italia per rinegoziare con l’Europa la partita del rigore senza che la nostra economia reale sia martirizzata oltre il necessario? Con Monti forse sì. Senza di lui tutto diventa ora più difficile.