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 2012  dicembre 07 Venerdì calendario

Addio a un altro simbolo Tacchini lascia l’Italia - N on sono bei momenti per i tacchini. A parte il giorno del Ringraziamento si avvicina­no il Santo N­atale e un altro san­to da celebrare a tavola, san Sil­vestro, e dunque la richiesta di tacchini aumenta

Addio a un altro simbolo Tacchini lascia l’Italia - N on sono bei momenti per i tacchini. A parte il giorno del Ringraziamento si avvicina­no il Santo N­atale e un altro san­to da celebrare a tavola, san Sil­vestro, e dunque la richiesta di tacchini aumenta. Preferisco una partenza ridanciana su una questione serissima che non fa affatto ridere ma che te­stimonia lo stato della crisi, no­stra e mondiale. Dunque Ser­gio Tacchini, in quanto azien­da di abbigliamento sportivo e affini, passata di mano ai cinesi adesso chiude le serrande in Ita­lia e va all’estero, alla ricerca di mercati meno soffocati e soffo­canti. Operai senza lavoro, al­trochè pranzo natalizio con tac­chini e pennuti simili, qui fini­sce un’epoca, finisce un’avven­tura bellis­sima che è stata firma­ta da un ragazzo piemontese, di Novara, che dopo aver giocato a tennis, e bene, aveva deciso di pensare al tennis e alle altre di­scipline sportive come impren­ditore, intuendone lo scenario, le prospettive, i mercati, l’affa­re. Sergio Tacchini è stato cam­pione d’Italia, ha giocato quin­di partite di coppa Davis, due in doppio con Nicola Pietrangeli che lui sconfisse nella conqui­sta del titolo tricolore ma aveva intuito che il suo futuro non sa­rebbe stato sulla terra rossa o tra il verde di Wimbledon con le fragole e la panna montata. Era ancora uno sbarbato quando se ne partì per le Americhe, viag­giando tra New York, Boston e poi puntando verso Città del Messico per studiare, capire che cosa fosse il tennis, e lo sport, in quelle terre così distan­ti ma così interessanti. Le crona­che lo segnalarono presente a Hollywood a dare lezioni agli at­tori del cinema, si disse e si scris­se che Kirk Douglas gli chiedes­se consigli su come effettuare un buon «drive», richiesta riba­dita da Peter Ustinov e Antony Perkins, insomma il ragazzo prometteva e, insieme con il conterraneo Giordano Maioli si ritrovarono così battezzati «di ottima razza, di estrazione borghese, non ebbero in dono dagli dei le armi fatate di Nicola ma ci rappresentarono sempre con dignità». Il sommo Gianni Clerici così li descrisse, ricor­dando anche la vittoria, ultima, di Tacchini sul sudafricano Dry­sdale, numero 5 al mondo. Era­no tempi belli e anche bulli. Per­chè non ricordare la rissa furi­bonda con il colombiano Alva­rez durante un doppio in un tor­neo a Napoli? Tacchini, provo­cato da Alvarez, saltò la rete, gli fu addosso, i due rotolarono sul­la terra rossa, finendo addirittu­ra sul campo adiacente, arriva­rono due carabinieri a dividere i tennis-boys e Tacchini venne squalificato, saltando la Davis. Il fatto, comunque, non ven­ne ricordato quando Oscar Lui­gi Scalfaro, novarese pure lui e capo dello Stato, conferì il titolo di Cavaliere del Lavoro a Sergio Tacchini, ormai imprenditore illustre e conosciuto in ogni par­te del mondo, dal tennis alla ve­la, allo sci, ai giochi dell’Olimpi­ade dove la squadra azzurra si presentò con le divise con una «T» disegnata sul petto. Maglie, tute, profumi, occhiali, era il trionfo vero, era il successo ita­liano nel mondo, fu proprio Cle­rici a suggerire a Tacchini di of­frire un contratto di sponsoriz­zazione a Pete Sampras ancora sconosciuto ma altri protagoni­sti­entrarono nel circolo del no­varese. Fu Tacchini a smazzare la tradizione del colore bianco, segno distintivo di una purezza che tale non era più. Apparvero allora maglie e pantaloncini, bandane e calzini, polsiere di ogni tipo e colore, il tennista di­ventò un indossatore anche biz­zarro, l’azienda novarese cre­sceva nel tabellone internazio­nale ma incominciava a fare i conti con una concorrenza spie­tata e cattiva, le multinazionali giocavano a rubare i testimo­nial, si arrivò a una causa legale con la svizzera Martina Hingis che aveva violato il contratto ve­stendo abiti di altre marche, poi la crisi, poi l’arrivo del capi­tale cinese, quindi il recupero del marchio ma ancora le diffi­coltà di un mercato diverso dal passato, più feroce, più cinico. Per ultimo il contratto annulla­to da Djokovic. Sembra di un al­tro secolo la quotazione in Bor­sa con fatturati multimiliarda­ri, sembra un altro secolo il nu­mero di quasi 300 dipendenti, poi le avvisaglie di un mondo fa­melico, le rapine in ditta, i di­pendenti in ostaggio, cronaca nera. Da cinque anni i cinesi della Hembly hanno cambiato campo di gioco, si sono affidati alla Img, numero uno del marketing, per esplorare e indi­viduare nuove soluzioni per il marchio. Oggi per i lavoratori di Novara, Caltignaga, Bellinza­go e Castelletto Ticino, la Cina non è vicina. Ripensando al Ses­santasei, al primo giorno di scuola e di fabbrica.