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 2012  dicembre 11 Martedì calendario

DURHAM: PER FARE ARTE DEVI STARE SULLA STRADA


A Jimmie Durham danno sui nervi quelli che a tutti costi vogliono fare riferimento alle sue origini Cherokee ma noi europei siamo ancora infantilmente affascinati dall’idea degli «indiani e dei cowboy» e un artista nativo americano è ancora oggi qualcosa di molto speciale. Durham non si arrabbia nemmeno più a questa domanda, se ne frega facendo finta di non sentirla, colpa delle campane che suonano vicino al suo studio a Napoli, dove passa molto del suo tempo quando non è a Berlino.

Cosa le piace dell’Italia?

«La sua vita sociale. In Germania non sono ancora riusciti a sviluppare una vera vita sociale».

Durham è uno degli ultimi gentiluomini dell’arte contemporanea. Nato in Arkansas nel 1940 a trent’anni è andato a studiare a Ginevra Quando ha deciso di lasciare gli Stati Uniti definitivamente?

«Ho lasciato gli Stati Uniti nel 1987 per andare in Messico. Ma negli anni 80 e 90 tornavo spesso a New York per fare mostre. L’ultima mia visita credo sia stata in occasione della Biennale del Whitney del 1993».

Durham è a metà fra l’antropologo, il filosofo e l’attivista civile, passione che divide con la sua compagna della vita.

«Ho incontrato Maria Thereza Alves nel 1978, quando era andata a lavorare alle Nazioni Unite. È brasiliana e ha lavorato principalmente sulla condizione delle popolazioni indigene brasiliane nella commissione dei diritti umani all’Onu. Fra il 1987 e il 1994 siamo andati a vivere in Messico a Cuernavaca».

Un luogo mitico in quegli anni...

«A metà degli Anni 70 vivevano lì molti intellettuali di sinistra che arrivavano per la maggior parte dall’America Latina».

L’Europa è un posto migliore e più affine al suo lavoro?

«In Europa mi sento costantemente stimolato intellettualmente. Mentre non è cosi in altri posti come il Canada, il Messico o gli Stati Uniti, anche se ho ancora contatti ed alleati intellettuali da quelle parti»

Lei è uno degli ultimi grandi sopravvissuti di quella generazione di artisti che considera l’arte uno dei tanti strumenti per navigare la vita socialmente, poeticamente, politicamente. Mi pare anche che proprio la definizione di arte non la convinca nemmeno tanto.

«Per me il problema sono proprio le categorie. Le usiamo solo per semplicità di linguaggio nulla di più. Ma ce ne dimentichiamo sempre. Il termine arte e come il termine libro e musica. Sono al tempo stesso termini troppo ristretti o troppo ampi. Servono alla gente per essere sicuri che quello che vedono, leggono o ascoltano non riservi sorprese».

Uno dei suoi autori preferiti è Italo Calvino. Perché lo ama?

«Calvino riusciva in modo fantastico a non farti mai prevedere la prossima cosa che avrebbe scritto. Il suo lavoro era sempre una sorpresa».

È vero che i Cherokee non hanno una parola per «arte»?

«Non è fantastico che esistono culture che non pongono limiti al proprio intelletto? C’è un Accademia d’Arte a Tromso in Norvegia dove il fondatore, Geir Tore Holm, che è un artista Sami (popolazioni indigene che abitano le zone artiche della scandinavia nda) segue il principio della totale libertà e partecipazione nel processo di costruzione della società da parte degli artisti».

Mi ha detto che lei si sente un poeta e un innamorato, ma nelle sue opere mi pare di vedere anche molta violenza
«Non ho mai sentito violenza nel mio lavoro anche se immagini ci sia. Ad esempio io uso le pietre non come materiale ma come strumenti per fare qualcosa e questo può dare l’impressione che ci sia violenza. Comunque l’idea di violenza è abbastanza soggettivo non trova? A me piace molto la bistecca di mucca chianina. Per accontentarmi c’è qualcuno che ammazza la bestia in modo abbastanza violento e poi la taglia in pezzi sanguinanti. Mi piacciono anche moltissimo i rapanelli. Per far crescere quelli buoni bisogna estirpare ogni giorno altre piante ed erbacce. Mi sono reso conto che c’è gente che apprezza molto più di me la violenza di una pietra che schiaccia un frigorifero o una vettura».

La mostra a Roma è intitolata «Strade di Roma e altre storie». La strada è una grande fonte d’ispirazione per lei?

«Sì, ho sempre sentito la strada come un luogo ideale e suggerisco sempre ai miei studenti di stare per strada facendo esperienza della vita. Per me l’arte è un fenomeno sociale».

Che relazione ha con l’Arte Povera ?

«Suona sempre strano quando parlo di arte italiana. Incoraggio e voglio bene a tutte le generazioni di artisti italiani che conosco. Non penso in particolare all’Arte Povera anche se era qualcosa di seriamente bello e leggero al tempo stesso. Giovanni Anselmo è come un angelo».

Adesso ha uno studio a Napoli. Sembra che abbia la tendenza a spostarsi sempre più nel Sud dell’Europa. È qui che si sente più a casa?

«Mi sforzo di non sentirmi mai a casa. Ma mi piace fare giardinaggio, cucinare, costruire mobili. In poche parole le cose necessarie per una comoda vita sicura. Ma scopro sempre che il mio cervello più che di sicurezza ha bisogno di stimoli».

In un’intervista ho letto che a lei piace essere interrotto
«Sono pigro di natura e non troppo bravo a pensare a cose nuove a meno che non ci sbatto la faccia contro».

Segue la politica italiana? Abbiamo speranze?

«L’altro giorno dicevo ad una persona che non sembra che esista davvero un’Italia. Non mi pare una cosa negativa visto che questa idea degli Stati in Europa sembra avere fatto il suo corso. Se l’Italia diventerà parte di un Europa più evoluta credo che il suo vino sarà ugualmente molto buono».

Che cosa pensa di quel che accade in Europa?

«Mi sento molto fortunato di venire da una cultura (quella dei Nativi Americani nda) che non ha mai trionfato. Mi da l’opportunità di avere una prospettiva più lunga. In molte cose stiamo di gran lunga meglio che 1000, 2000, 10 mila anni fa. La cosa però che mi preoccupa dell’Europa è che ha questo enorme potenziale di energia portato dagli immigrati che sono qui ed invece di celebrarlo ed utilizzarlo spesso lo esclude».

Si chiede mai dove e che futuro ci sarà?

«Credo che il futuro sia molto pericoloso ma ho molta simpatia per noi quando siamo in questo tipo di pericolo. La mia vita è molto semplice. Ho pochi gadget elettronici, niente tv, niente automobile, niente iPhone, eppure mi piace avere una casa con tanta luce elettrica, viaggiare in aeroplano e bere del buon vino. Gli esseri umani hanno lavorato in modo così stupido per avere quello che hanno. Affermare che non dovremmo avere tutte queste cose meravigliose mi sembrerebbe molto triste, non è vero?».