Francesca Paci, la Stampa 11/12/2012, 11 dicembre 2012
NELLA FABBRICA DOVE L’EGITTO CULLA LA RIVOLTA
L’ uscita dalla fabbrica è un momento catartico a «Ghomhuriat al Mahalla al Kobra», la repubblica libera di Mahalla che venerdì sera, capitanata da un intraprendente consiglio operaio, ha proclamato simbolicamente la propria indipendenza dal governo islamista del Cairo. Gli impiegati vicini ai Fratelli Musulmani si sono affrettati a rimuove lo striscione appeso sul cancello del municipio dai ragazzi di piazza el Shoun, la Tahrir locale, ma a 4 giorni dal referendum della discordia la capitale industriale egiziana che ha incrociato le braccia contro re Faoruk, ha sfidato Nasser e ha cominciato a contestare Mubarak quando la generazione Facebook non era ancora nata, ribadisce di non riconoscere alcuna legittimità al neo «dittatore Morsi».
«La secessione è una provocazione, volevamo lanciare un segnale che, inaspettatamente, è stato già raccolto da diverse province, il malcontento nei confronti di un Presidente che concede spazio solo al suo partito è diffuso» spiega il 40enne Faisal Abelrahni uscendo dal cancello blu della Ghazl el Mahalla, la terza maggiore fabbrica tessile del mondo fondata nel 1927 dal padre dell’economia egiziana Talat Harb, 25 mila operai di cui 6 mila donne, 300 mila macchine che lavorano un milione di quintali di cotone l’anno per produrre 5 milioni di capi, una città nella città dotata di mensa, piscina, ospedale, 5 moschee, uno stadio in grado di ospitare l’amatissima squadra al Ahli (i cui tifosi sono stati l’avanguardia della rivoluzione del 25 gennaio 2011). Faisal, almeno, non ha recriminazioni: «Al primo turno ho votato Sabbahi e al secondo Shafik, per quanto detestassi il vecchio regime la prospettiva di Morsi era peggiore. Avevo ragione».
Sul piazzale della Ghazl, dove convergono shara Elinteg e shara Babur al Nur, via della Produzione e via dell’Elettricità, i compagni del turno di giorno slegano le bici, distribuiscono i biglietti del teatro in cui va in scena lo spettacolo da loro interpretato «La storia dell’inverno» e discutono di politica. Altre due città del Delta del Nilo, Mansura e Domiat, hanno annunciato di voler seguire l’esempio di Mahalla, e Alessandria, finora roccaforte dei Fratelli Musulmani, ci sta pensando.
«Molti di noi hanno votato Morsi in modo superficiale, tanto per non tornare indietro, dimenticando che non c’è feeling tra le rivendicazioni dei lavoratori e i Fratelli Musulmani, assai più sensibili al commercio anche in virtù della professione di Maometto» ammette lo storico sindacalista Said Hossein.
Nella fabbrica color ocra dominata da forni-ciminiere e dall’orologio che sembra aver fermato il tempo agli Anni 40 in maniera metafisica, un quadro di De Chirico, una Latina mediorientale, il passato è vivo ma ha il peso di un tabù. Che sia o meno religioso l’operaio di Mahalla è allergico alla barba islamista e se ne vedono poche lungo i viali sterrati attraversati anarchicamente da somari, carretti, Tuctuc, l’Ape adattata a mini taxi. Duro somministrare il fatalismo del Corano, che invece della lotta di classe propone l’elemosina nel nome di Dio, a chi da un secolo si batte per l’orario di lavoro, la pensione, il salario che oscilla oggi tra i 250 e i 1200 pound, 30-130 euro. Non ci sono luddisti nemici del futuro qui, come vorrebbero far credere i Fratelli Musulmani: gli uomini e le donne inchiodati ai telai, almeno un terzo dei 500 mila abitanti di Mahalla, assomigliano piuttosto a quelli «rivoluzionari» studiati a Manchester dall’Engels mentore di Marx.
«Negli anni di Mubarak gli operai sono stati privati di qualsiasi diritto, erano una sorta di “incentivo per investimenti”, ma la rivoluzione li ha emancipati e Mahalla ha rilanciato la richiesta di libertà» osserva El Badri Barghali, ex portuale di Port Said ed ex parlamentare del partito di sinistra Taggama noto come «la voce del proletariato». La presidenza Morsi ha ingaggiato un braccio di ferro con chiunque intralci il percorso dei Fratelli Musulmani ma il tessile, da cui dipende il 30% del lavoro egiziano, il 3% del prodotto interno lordo e il 26% dell’industria, è un osso duro.
Seppure non andrà in paradiso, la classe operaia resiste. Basta interpellare l’ex guida suprema dei Fratelli Musulmani Mahdi Akef per cogliere il disagio: «Non temo operai o contadini perché gli egiziani sono per la crescita e la stabilità: a Mahalla non agiscono operai ma forze distruttive che vogliono il caos».
Qualsiasi sia l’interpretazione il clima è esplosivo. «Sabato scorrerà il sangue, noi boicotteremo il referendum e i Fratelli manderanno in campo i duri» paventa Kamal abu Elaila, coordinatore del Dar el Kadamet el Neqabia wa Elhaumelia, il sindacato che offre sostegno legale agli operai. Nell’ufficio spartano con la tv a tubi catodici si affollano operai, militanti, studenti. «La legittimità di Morsi è finita, stiamo organizzando comitati per monitorare il lavoro dei suoi emissari in città», afferma l’universitario Ahmad Fauzi, eroe dell’assalto al Municipio.
«Tecnicamente Mahalla può fare ben poco, l’Egitto è un sistema centralizzato, non prevede federalismo né autonomie locali, l’autonomia è una provocazione politica che non può andare oltre lo sciopero» ragiona il giudice Hosam Mikkawy. In piazza el Shoun però, i ragazzi riuniti al ristorante Koshari al Beit, dove con 5 sterline (mezzo euro) si gusta il piatto nazionale, si godono il simbolo, epigoni di un mondo-fabbrica che non rimpiazza i pensionati e vive in virtù della propria identità anti Morsi.