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 2012  dicembre 11 Martedì calendario

IL BELLO DEL VOLGARE


Una straordinaria edizione del
De vulgari eloquentia,
a cura di E. Fenzi, inaugura la nuova edizione commentata delle opere di Dante, promossa dal Centro Pio Rajna. Impresa che si annuncia da questo primo volume davvero monumentale. Il
De vulgari
non è soltanto commentato, sulla scorta in particolare delle fondamentali ricerche di Pier Vincenzo Mengaldo, con una vastità di erudizione e profondità critica, che non ha precedenti, ma, oltre a un importante saggio di F. Bruni sulla Geografia dantesca in riferimento alle aree linguistiche considerate nel trattato, ci sono offerti in appendice tutti i testi poetici francesi, provenzali, italiani citati da Dante e il primo volgarizzamento del
De vulgari
ad opera del Trissino, stampato a Vicenza nel 1529, che sottraeva l’opera ad un oblio secolare.
Opera, a mio avviso, così rivoluzionaria, da non poter essere lasciata “pascolo” della sola erudizione storico-filologica. Verità mai prima “tentate” affronta Dante anche qui. Anche qui egli è “profeta”. E la prima, fondamentale di queste verità è che solo l’uomo parla. Nessun altro animale, né angelo. Gli animali usano segni, sì, fanno-segni, ma sensibili soltanto. E gli angeli comunicano immediatamente riflettendosi tutti nello “specchio” del Divino sovraessenziale. Ma la lingua è segno sensibile e razionale, congiunge in sé spirito e natura. E ciò ne costituisce l’intatta nobiltà,
simbolica
nell’accezione più pregnante.
L’istinto è unico per ogni specie animale. E neppure le specie angeliche si distinguono, se non per il posto che occupano nella celeste Gerarchia. Nell’uomo, invece, la ragione «diversificetur in singulis », si manifesta diversamente nelle diverse persone. Ognuno di noi come ha una propria, individuale anima, così manifesta quasi una propria ragione. E non è affatto un “male” – anzi dobbiamo
godere
di ciò. Ma insieme anche comprendere le difficoltà e responsabilità che ne nascono. Comunicare tra umani sarà sempre esposto al pericolo del fra-intendersi. È necessario esserne consapevoli ed elaborare perciò una sapiente eloquenza, un linguaggio per quanto possibile
ordinato e capace di esprimere col massimo rigore le idee, sempre destinate per manifestarsi ad incarnarsi in segni sensibili.
Ecco allora l’imperiosa necessità di
costruire un volgare illustre – un volgare con cui potersi esprimere nelle accademie e nelle corti, nei tribunali e nella grande politica. Un volgare
cardine
del nostro comunicarci, che si innalzi sulle miserie
municipali
– non perché Dante abbia cessato di amare Firenze, anzi: la ama da esule ancora di più – ma proprio da esule ha imparato che le città vivono solo se universali, solo se la loro lingua è così potente da comunicare a tutto il mondo.
Ma non basta il latino? Certo, è nobile la
grammatica, certo essa garantisce un ordine perfetto. Ma non solo essa non può essere da tutti compresa – e il nuovo intellettuale, Dante, da tutti essere compreso. Il vero problema è che mai potrò esprimere
in latino
i drammi dei tempi nuovi, mai potrò rappresentare
in latino
la vita di queste città, il loro conflitto con Chiesa e Impero, la scandalosa decadenza della Chiesa, la catastrofe dell’idea imperiale. Le idee e i conflitti di questa età debbono trovare il proprio linguaggio, così come il nuovo ordine di Augusto l’aveva trovato in Virgilio. Altrettanto nobili entrambi. Ma solo il primo oggi vivente. Inutile allora il latino? Nient’affatto – il latino è l’esempio insuperabile della sintesi di sapienza e eloquenza. Il latino insegna a volerla e perseguirla
nel volgare.
Ma non diventerà così anche il volgare una lingua artificiale? Impossibile – esso affonda nella
matrice,
esso è radicato, prima di ogni parola, nella nostra
infanzia.
Insieme al dono stesso della libertà, Dio infonde
nella nostra anima quella
forma locutionis,
che ci rende capaci di assumere, senza nessuna regola, qualsiasi lingua con cui la
madre
ci chiami. (So bene che il Fenzi intende diversamente l’espressione “forma locutionis”, come riferita alla sola prima lingua parlata da Adamo, che per Dante, come per tutta la tradizione precedente, non poteva che essere l’ebraico). Non artificiale deve essere il volgare, ma così potente da esprimere ogni idea, da comunicare ogni contenuto. Da essere
poesia,
insomma, nel senso primo di
poiesis,
capacità fabbrile, forza tettonica.
Poetica
dovrà essere perciò la fondazione della lingua da tutti parlata e da tutti in qualche modo intesa –
poetica,
meglio, quella sua
ri-fondazione,
che la renderà atta a creare vere comunità di parlanti. Poeti saranno i
fabbri
migliori del parlare materno.
Ma non diviene instancabilmente questo parlare? Come dargli una forma? E non è questo suo continuo fluire immagine dello stesso animale uomo «instabilissimum atque variabilissimum »? Come “curare” le infinite varietà delle lingue, e le varietà interne ad ogni singola lingua? Ma proprio la universale vicissitudine delle cose rende necessario cercare il
Comune,
costruire forme di intesa e comunicazione, che a tutti possano appartenere proprio perché a nessuno appartengono. Nessuna astrattezza in tale compito – il
Comune
va perseguito attraversando la concretezza vissuta delle forme di vita che i diversi idiomi rappresentano. Nessun sedentario lavoro “a tavolino”, ma
caccia
appassionata da città a città, anzi: da quartiere a quartiere, e cioè da vita a vita, per scovare quelle forme che appaiano le più salde, quelle dotate di più “storia”, quelle capaci di rendere più forte e convincente il nostro dire. E anche più bello, più sonante, più armonioso. Straordinario impasto di coscienza storica,
sperimentalismo, ricerca di “grande forma”. E di amore per il parlare materno.
In epoche in cui la lingua viene ridotta a puro mezzo per scambiarsi qualche informazione, in cui la sua forza simbolica viene strapazzata, in cui i municipalismi più plebei minacciano di dissiparne l’energia comunicativa universale, e sembra che a questi si debba rispondere soltanto con il rigore dei linguaggi formali-artificiali delle “scienze esatte”, l’appello di Dante in onore del
volgare,
sì, ma perché si faccia
illustre,
suona ancora in tutta la sua carica innovativa.
Loquor ergo sum,
parlo e perciò sono – ma per poterlo affermare la mia
locutio
deve saper tendere a quella sapienza, eloquenza e bellezza le cui tracce e i cui indizi il Vate indaga senza riposo, e con i quali costruisce la somma architettura della
Commedia.