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 2012  dicembre 11 Martedì calendario

NOI DONNE UN PO’ PAZZE FRA LE BOMBE


Scoppia a ridere per quel che sta per dire, ma è per il pudore: «La mia prima reazione alla notizia che la guerra era finita, che eravamo liberi e nessuno avrebbe sparato più, fu di delusione, lo confesso. Dissi: ma come? Proprio ora che avevamo la benzina e le gomme per le nostre ambulanze? A vent’anni eravamo pazzi. Tutti. Io, mio fratello, le mie amiche di quel tempo. Risalivamo l’Italia con la Quinta Armata del generale Clark, sapevamo di polvere e respiravamo aria di cadavere, non dormivamo e io portavo le bombe nascoste addosso... Sa, la guerra: quando si descrive la guerra a chi non l’ha vista, non è possibile trasferire le immagini della normalità, della morte, dei colori legati alle cose. Devo dire che la vecchiaia, a parte gli occhiali che sono una vera seccatura, è una stagione straordinaria della vita perché permette di guardarsi dietro e vedere la storia». E’ seduta sul divano della sua stanza alla Farnesina, Susanna Agnelli, ministro degli Esteri nel governo dei tecnici. Le ho chiesto di raccontare il suo 25 Aprile, di ricordarne i sapori e colori. Ed emozioni. Fatti e luoghi. L’aria era color della polvere. E anche il cielo mi pare di capire.
Dove era quel giorno? «A Firenze. Eravamo accampati nel cortile del Palazzo Antinori. Avevo ventidue anni e mi sentivo vecchissima. Ero stata al Comando militare alleato ad Arezzo ed ero andata diritta dal generale Clark. Una stanza enorme con un tavolo enorme. Lui era lì. Gli dissi: Generale, avrei bisogno di gomme nuove per le nostre ambulanze. Sono cinque. Noi siamo le uniche persone che possono portare soccorso ai civili feriti o malati. Ci aiuti. Il generale sorrise e disse ok. Allora dissi: Generale, e la benzina. Clark disse ok e sorrise di nuovo. Era fatta».
Com’era nata questa storia delle cinque ambulanze? «Era nata dal fatto che eravamo crocerossine. La Croce Rossa era a quell’epoca un corpo molto sabaudo, molto piemontese. Edda Ciano, figlia di Mussolini, si presentò per essere arruolata su una nave ospedale. Non era infermiera e fu rifiutata. Allora si iscrisse al corso e quando si presentò dovette declinare le generalità. Le chiesero: figlia di? Ottenne l’imbarco, la nave fu silurata e si salvò a nuoto. Allora mio nonno mi chiamò e mi disse: questa storia delle navi ospedale non mi piace. Non vorrei che silurassero anche te e che poi fossi salvata in sottoveste da un pescatore».
Scherzava, naturalmente. «Diceva sul serio. Insomma, la Croce Rossa era un’istituzione molto chiusa e disciplinata Quella primavera ero rientrata dalle linee con mio fratello Gianni ed ero francamente sconvolta. Avevamo avuto un terribile incidente stradale e Gianni aveva un piede massacrato, era in uno stato terribile, anche se resisteva magnificamente al dolore. Stavamo fermi sul ciglio della strada. I tedeschi passavano e ci ignoravano. Gianni stringeva i denti e io cercavo un passaggio. Alla fine lo trovai e lo portammo all’ospedale. Mentre lui si rimetteva, prima di tornare alla sua divisa di ufficiale (ma al seguito della Quinta Armata), io e alcune amiche avevamo pensato alle ambulanze».
Chi erano queste amiche? «Oh, eravamo un gruppo di sconsiderate, io, Marilise Carafa, Topazia Caetani, Vittoria Borghese e la baronessa Avanzo in veste di pilota, in uniforme blu. Guidava malissimo. Il 25 aprile avevamo sistemato le nostre ambulanze nel cortile degli Antinori perché Topazia ci aveva fatto aprire i cancelli. Fu là che ascoltammo la notizia. E io ebbi quella reazione: di felicità, ma anche di delusione. Avevamo fatto tanto per mettere insieme quella carovana sanitaria... Ma il giorno dopo eravamo già sull’Appennino, dove ci aspettava una scena amara e crudele. Fra quelle montagne l’aria sapeva di cadavere».
Che cosa era successo? «C’era stata una battaglia negli ultimi giorni di guerra. E i morti erano ancora lì, da qualche parte. Ma noi ci occupavamo soltanto di civili. Eravamo state chiamate per raccogliere un ragazzo ferito. Arrivammo e vedemmo questo giovane, sorretto dalla madre. Quell’atmosfera, quell’odore, le emozioni e i colori, e la nausea, non sono ripetibili».
Perché la scena era amara e crudele? «Perché capimmo presto che il ragazzo si era ferito per caso mentre spogliava i cadaveri. E che anche sua madre era lì per lo stesso motivo. E quei due avevano paura. Io provai un senso di pena e di orrore. Ma anche loro facevano parte di quello scenario, di quella guerra, e oggi di quei ricordi».
Se guarda la sua fotografia nell’archivio della memoria, che cosa vede? «Vedo un’irresponsabile. Ma era così bello, così esaltante, così faticoso. Dall’Appennino io passai poi a Bologna, altre del nostro gruppo andarono a Milano o a Trieste. Io avevo questa spina nel cuore di Gianni ferito e a quell’epoca noi due eravamo legatissimi...».
Diversamente dalle altre stagioni della vita? «Oh no. E’ sempre stato così. Quando era in ospedale qualcuno capì che eravamo fratelli. Qualcun altro pensò che ero la sua ragazza e questo era divertente. Anche adesso manteniamo lo stesso identico rapporto: a lui piace sapere tutto quello che penso e che faccio, mi chiede dettagli minuscoli ma significativi...».
E anche lei, come suo fratello, usa il verbo «divertirsi» come sinonimo di lavorar bene, con gusto. Un verbo calvinista. «E’ così. Secondo me è impossibile fare bene qualcosa che non procuri anche piacere. Io l’ho imparato da Lord Carrington, segretario generale della Nato e con un incarico terribilmente serio, che rideva con grande gioia. Ma per tornare a quella stagione, a quelle ore e a quei mesi, devo dire che io con una delle ambulanze mi sono anche sposata. Era il 18 agosto e Topazia guidò me e mio marito Urbano Rattazzi fino a Forte dei Marmi. Guidava malissimo e ci divertimmo molto».
Le è mai capitato di non divertirsi affatto? «Sì. In due circostanze. La prima, quando ero studentessa al ginnasio D’Azeglio di Torino. Una noia, una retorica declamatoria, una scuola così priva di divertimento... Io non ero forse una grande studentessa, ma mi annoiavo tristemente».
E la seconda? «Fu quando diventai deputato. Da sindaco dell’Argentario mi ero divertita moltissimo. Ma quel periodo a Montecitorio, a partire dal 1976, fu quello della massima depressione. Non c’era assolutamente niente di buono da fare. Finché non diventai sottosegretario agli Esteri. Allora sì, tornai a divertirmi».
E si diverte a raccontare la sua storia ai nipoti? «Un giorno Priscilla mi chiese: ma tu eri nella guerra del quindici-diciotto o in quella dopo? Le guerre dei libri sono tutte uguali. Bisogna aver respirato l’aria, aver provato la stanchezza, l’incoscienza...».
Era veramente tanto incosciente? «Sì. Un giorno un contadino, eravamo in Toscana, mi passa certe granate e mi dice: Se le nasconda nella camicia e le porti laggiù. Io dissi: E perché non lo fa lei? E quello: No, è pericoloso, troppo pericoloso, meglio che vada lei. Ah, dissi, bravo, bel fegato. Però aveva ragione: sarei andata a spasso su un campo minato, se me l’avessero chiesto. Io e Gianni eravamo così, e in quei giorni, in quei mesi, in quell’anno lungo terribile eravamo tutti unitissimi e come pazzi. Sa dove, soltanto, è possibile rivivere quell’atmosfera? In quel film dei fratelli Taviani...».
La notte di San Lorenzo? «Quello. E’ perfetto. Anche la confusione, di due fratelli uno è fascista e l’altro è partigiano; le urla, il grano alto, le donne, i tedeschi cupi...».
Secondo lei sono più coraggiosi in guerra gli uomini o le donne? «Le donne. Non c’è dubbio. Credo che gli uomini in definitiva siano più intelligenti, sotto un certo punto di vista. Ma le donne si buttano dentro, non guardano in faccia a nessuno. Non c’è dubbio. Non sentivo mai la sensazione del pericolo. Però in vita mia ho sentito certe volte il peso dei ragionamenti complicati, concettosi. C’era Guido Carli che mi diceva: se adesso riesci ad ascoltarmi attentamente per due minuti, forse riesco a spiegartelo. Alla fine del primo minuto dicevo basta».
Che cosa ricorda più vividamente della Liberazione? «La festa di Roma, la gioia di Roma liberata. Lei non può immaginare». Io posso immaginare, perché lo ricordo. Un soldatone nero americano mi regalò un dolce. «Sì, e tutti erano traboccanti di gioia. Era una gioia come non si è mai vista al mondo. E il contrasto con Roma occupata dai tedeschi. Il soldato tedesco in fondo alla strada, solo, grigio, con la mitraglietta in mano in mezzo al filo spinato».
Ma torniamo a quel giorno, quelle ore d’aprile... «Io dentro al cuore gridai: mamma mia! Mamma mia, è finita la guerra. Mamma mia e abbiamo ancora da fare tutto, dobbiamo raccogliere la gente, andare ovunque, costruire, ricostruire... Vede, dette così non sono che parole. Lei può scriverle, ma le parole non sono i sentimenti da cui nascono, non hanno 1’odore delle emozioni, l’odore della vita. Avevamo la morte sempre intorno, con quel puzzo atroce che nessun film può raccontare, quel tanfo oppressivo. E tutto quell’orrore, quelle gomme lisce, quelle corse nella campagna, l’incertezza della sera, le bombe nella borsa, la bicicletta, la notte, mamma mia! Ed era finita. Eravamo magri, impolverati, ma non avevamo mai cessato di divertirci sfidando e superando tutto il male che avevamo intorno. Certo, per la mia nipotina Priscilla forse quella guerra, o quelle di Napoleone, o del Risorgimento sono tutte uguali. Ma proprio per questo è bello invecchiare: per ricordare con gioia e cercare di innestare i ricordi sui nipoti».