Giuseppe Antonelli, Il Sole 24 Ore 9/12/2012, 9 dicembre 2012
DEBOLI, SGRAMMATICATI CINGUETTII
«Correre da soli? Yes, we can. E se vinciamo, il governo sarà formato da 12 ministri. WV». A rileggerlo oggi, il tweet postato l’8 febbraio 2008 nell’account "lanuovastagione" del pioniere Veltroni fa una strana impressione. Nel frattempo la stagione è cambiata, il periodo ipotetico si è rivelato dell’irrealtà e gli slogan che erano nuovi sono diventati obsoleti; non così l’idea della squadra di ministri attestata su numeri da squadra di calcio: «Proporre solo 10 ministri (metà donne) e 500 parlamentari non è demagogia. Ma un modo per dire che cambiare si può. E si deve. Adesso!» (Matteo Renzi).
Era un’altra era, anche se sono passati neanche cinque anni. O forse dovremmo dire: era un altro ora (un altro adesso), dato che la caratteristica più tipica della comunicazione via Twitter – la sua forza e il suo limite – è proprio il fortissimo radicamento nel l’hic et nunc. Emblematico il fenomeno, in grande crescita, del live twetting: il messaggiare in presa diretta, non solo da parte di chi assiste a un evento, ma anche di chi ne è protagonista. Come Alfano, che aggiorna la sua pagina mentre è ospite in trasmissione («Con l’uso del tablet a #Ballarò in diretta con voi, abbiamo battuto tutti sul tempo!»); o come Bersani, la cui pagina riprende in tempo reale i passaggi più efficaci dell’ultima intervista da Fazio: «Effetti speciali per la settimana del #ballottaggio? Non amo gli effetti speciali, mi piacciono quelli normali #chetempochefa #pb2013 #primarie». Qui il meccanismo sintattico è lo stesso di Veltroni: a domanda risponde; ma anche Twitter nel frattempo ha cambiato il suo linguaggio, e il post di Bersani è infarcito di quei piccoli diesis (gli ashtag) che servono a inserirsi in uno o più temi di discussione. A proposito di primarie, il più fortunato è stato #csxfactor, in cui l’acronimo csx "centrosinistra" (già rideclinato in #csxeriamo "ci speriamo") si è incrociato con il format televisivo di Xfactor, nei cui studi è avvenuto il confronto diretto tra i candidati. Nel giorno della trasmissione si sono registrati in tutto 110.000 messaggi; mentre Obama parlava nello scorso settembre alla Convention democratica i messaggi sono stati 52.000, al minuto.
Da noi, insomma, il Twitter factor (per riprendere un titolo di Augusto Valeriani) non ha ancora il peso che ha negli Usa; non di meno, più del 70% dei parlamentari italiani ha ormai il suo account e sono moltissimi i sindaci, i governatori, gli esponenti politici locali e nazionali attivi in questo sito di microblogging (uno sguardo d’insieme è offerto dall’aggregatore Casta tweet: www.lamacchinadelfungo.it). «Ma come comunicano i politici italiani su Twitter? Di quali strategie linguistiche si servono? In che modo l’uso di Twitter sta modificando il discorso politico in Italia? E in che cosa differisce da discorso politico televisivo?». Per rispondere a queste domande, Stefania Spina ha sottoposto a un sistematico studio quantitativo 37 puntate di diversi talk show politici andate in onda tra il 1998 e il 2012 e gli account di 40 politici italiani attivi su Twitter tra il novembre 2011 e il febbraio 2012. Più di trentunomila messaggi, prodotti a una media di sei e mezzo al giorno: anche se c’è chi (come Civati) ne scrive circa 50, chi 5 (come Meloni), chi 3 (come Fini), chi poco più di uno (come Rutelli) o poco meno (come Capezzone). Peccato che tra i quaranta manchi Beppe Grillo: anche al netto della polemica sui falsi followers, il politico italiano che in Twitter ha più seguaci. (Manca anche Berlusconi, che in Twitter ancora non c’è, anche se ben 88 account si spacciano per lui).
Parlando negli anni Settanta del linguaggio politico italiano, Calvino ne denunciava la «terminologia che vuol essere specialistica senza riuscire a essere univoca» e la «sintassi ramificata e sinuosa»: due aspetti che ne facevano «uno strumento più utile a non dire che a dire». I risultati che emergono dal lavoro di Spina tracciano un percorso di allontanamento dal politichese tradizionale scandito in due tappe. Alla politica televisiva si deve la superficiale rimozione dell’oscurità lessicale: spostato in un contesto salottiero, il lessico dei politici risulta formato per oltre l’80% da parole del lessico di base. Alla stringatezza imposta da Twitter (non più di 140 caratteri per ogni post) la drastica semplificazione della sintassi: nella scrittura di questi messaggi il lessico è più variegato, ma le subordinate sono meno della metà di quelle usate nel parlato televisivo (due ogni cento parole). Una frammentarietà seriale che mal si presta a una vera argomentazione, mentre risulta ideale per diffondere slogan imperniati su parole jolly come lavoro, solidarietà, sviluppo: «vogliamo andare verso un futuro di benessere e crescita. Ma una crescita verde e sostenibile» (Vendola). O – e qui è la vera novità – per un’interazione diretta con gli elettori, a cui rispondendo si dà del tu come tra vecchi amici: «Ciao Francesca» (Pisapia).
L’analisi non si sofferma sulle peculiarità individuali dei diversi politici. Sullo stile ironico di Casini («Berlusconi è costretto alle elezioni... Non potrà fare sottosegretari tutti gli italiani») o quello ruspante di Di Pietro («Buttiamo al cesso la legge Reale»). Né sulle difficoltà mostrate a più riprese in fatto d’ortografia, specie nel distinguere gli omòfoni, vale a dire parole e sequenze che hanno uno stesso suono ma diversi significati o funzioni. Casi come «E se riuscisse "Il Giornale" HA fare ciò che noi non siamo riusciti in 20 anni?» (Santanchè) o «il mio staff a posto all’attenzione di chi mi segue» (Alemanno), che si aggiungono a ben noti precedenti telematici («un’ente locale – ripeto un’ente locale» scritto da Boeri in Facebook; i vari dò, stà, pò di Biancofiore denunciati da Stella). Viene da chiedersi, strafalcione per strafalcione, se il Parlamento intenda discutere prossimamente una legge contro l’omofonia.