Tim Parks, Il Sole 24 Ore 9/12/2012, 9 dicembre 2012
PASTICCI LETTERARI GLOBALI
Nel 1904, tre anni dopo l’attribuzione del primo Premio Nobel per la Letteratura al poeta francese Sully Prudhomme, la English Football Association scelse di non partecipare alla formazione di una Federazione Internazionale del Calcio, la Fifa. Non ne vedevano il motivo. Né gli inglesi parteciparono ai primi Mondiali di calcio del 1930, anno in cui Sinclair Lewis vinse il Nobel: che senso aveva affrontare una traversata oceanica di dieci giorni fino all’Uruguay per giocare con squadre che per loro non significavano niente? La prima internazionale di calcio, facevano notare, era stata quella del 1872 tra Inghilterra e Scozia, quando Alfred Nobel stava ancora sperimentando la sua dinamite. E a chi interessano Argentina e Brasile se puoi giocare con la Scozia?
Non sono certo il primo a rimarcare come l’internazionalizzazione dello sport proceda in parallelo con quella della letteratura. Ma come per molte altre analogie, è la combinazione di somiglianze e differenze a risultare illuminante: per quanto diversi siano gli stili di gioco nel mondo, il calcio prevede regole universalmente applicabili. La Corea del Nord sfida il Messico con un arbitro svedese e, se si eccettua qualche fuorigioco contestato, sul risultato ci sarà poco da discutere. Ma quando l’arbitro svedese giudica le poesie di questi paesi siamo proprio sicuri che sceglierà il giusto vincitore? O che ci sia un vincitore "giusto"? O, se è per quello, una sfida?
L’aspetto interessante di quel famoso rifiuto della Football Federation, allora, è che, pur non esistendo ostacoli reali nel misurarsi con squadre "lontane", gli inglesi non ritenevano che questa competizione per la supremazia mondiale fosse il fine dello sport. Ciò che contava erano le comunità "vicine" che si affrontavano allo stadio.
Viceversa, ciò che affascina dei premi letterari internazionali è che gli ostacoli nella scelta tra scrittori provenienti da lingue diverse sono moltissimi, eppure tale è l’appetito per questi premi che si fa di tutto per passarci sopra. Ma allora qual è lo scopo più profondo che guida questi premi? Non sarà forse che agli scrittori – come agli atleti nelle Olimpiadi – viene chiesto di contribuire alla costruzione di una cultura globale? E questo compito cambierà il tipo di letteratura che viene pubblicata e il modo in cui se ne scrive e se ne discute?
Questi interrogativi sono stati al centro di Towards a Global Literature, un convegno tenuto recentemente all’Università Iulm di Milano. Nell’intervento iniziale David Damrosch, grande comparatista di Harvard, si concentrava piuttosto inaspettatamente sull’opera di Rudyard Kipling. Il ventenne Kipling, di stanza a Lahore, esordì pubblicando racconti sul giornale cittadino per la comunità angloindiana. Poi, consapevole di un pubblico più ampio in Inghilterra e negli Stati Uniti, sviluppò tutta una serie di strategie per rendere la sua narrativa accessibile ai lettori che sapevano poco del l’India. Pian piano, suggeriva Damrosch, il fulcro dei testi di Kipling divenne scoprire e "spiegare" l’India.
Così prende forma un tipo di letteratura che si distacca dal dibattito interno a una nazione, presentandosi invece come occasione per scoprire una comunità lontana. Tra le tappe più importanti in questo percorso c’è stata l’esplosione del realismo magico sudamericano. Nelle opere di Márquez, Fuentes, Vargas Llosa e altri, il realismo magico ha offerto ad americani ed europei una versione del Sudamerica in cui era difficile scorgere grandi differenze di spirito o di atmosfera tra le decine di paesi di questo vasto continente.
Al convegno, il romanziere messicano Jorge Volpi sottolineava quanto fosse difficile per gli scrittori sudamericani nel picco del realismo magico farsi pubblicare se non sottoscrivevano questa visione altamente stilizzata. In una reazione di protesta, spiegava, negli anni Novanta un gruppo di scrittori cileni fondò il cosiddetto gruppo McOndo (riformulazione ironica di Macondo, il luogo centrale di Cent’anni di solitudine); secondo loro nel guadagnarsi l’approvazione degli influenti lettori stranieri il realismo magico impediva agli scrittori sudamericani di raccontare le verità più prosaiche sul continente.
Il realismo magico non era circoscritto al Sudamerica. Vari autori angloindiani se ne servirono per creare una nuova visione dell’India per i lettori internazionali; uno di questi era così poco pratico della nazione che presentava all’Occidente che la reazione violentissima all’edizione indiana dei suoi Versi Satanici lo colse totalmente di sorpresa. Al convegno allo Iulm, Francesca Orsini, studiosa di letteratura hindi, sollevava una domanda interessante: i bei romanzi scritti nelle lingue indiane e tradotti in inglese sono molti – si pensi a Cocoon di Bhalchand Nemade o The Servant’s Shirt di Vinod Kumar Shukla – perché allora non hanno lo stesso successo internazionale dei libri di angloindiani come Rushdie, Vikram Seth e Arundhati Roy? La traduzione, osservava Orsini, rende sì disponibile un romanzo, ma l’esotismo di un testo che appartiene davvero a un’altra cultura resta una barriera per molti.
Alla domanda di Orsini ha risposto Edoardo Zuccato, studioso allo Iulm e poeta milanese, sferrando un attacco appassionato all’intero concetto di letteratura postcoloniale: gli scrittori africani e indiani che nel dopoguerra hanno scelto di scrivere in inglese e francese per la comunità internazionale, sosteneva Zuccato, non solo ci hanno proposto un esotismo superficiale; hanno anche tolto spazio a chi, scrivendo nelle lingue locali, offre qualcosa di veramente "altro".
Nei vari botta e risposta della discussione era interessante che nessuno caldeggiasse l’idea che ci si può anche rivolgere alla propria comunità senza preoccuparsi di comparire in questo spazio globale né di contribuire alla sua formazione. Perché il mondo letterario deve lasciarsi dirottare da questo grande progetto? L’ideale di un’unica comunità globale è di per sé nobile, ma quando la letteratura diventa lo strumento per creare tale comunità, emergono altre implicazioni meno allettanti. In uno dei dibattiti un accademico olandese ha citato l’infausta profezia lanciata in Language Death di David Crystal, secondo cui entro il 2100 scomparirà tra il 50 e il 90% delle lingue del mondo.
Che anche il convegno alla Iulm abbia contribuito a questo processo? Provenendo i relatori da molti paesi, tutte le sessioni si svolgevano in inglese. Qualcuno poi ha fatto notare che i romanzieri presenti, Peter Stamm e Jorge Volpi, avrebbero dovuto leggere qualcosa nelle loro lingue (tedesco e spagnolo) e non esclusivamente in traduzione inglese. Alcuni dei partecipanti inglesi hanno trovato difficile l’accento dei non inglesi mentre per alcuni dei non accademici il gergo dei professori americani è risultato incomprensibile, anche se una dottoranda italiana riteneva più facili i tecnicismi eruditi, a cui ogni italiano deve abituarsi, che non i colloquialismi dei relatori inglesi non accademici.
Che pasticcio. Eppure, malgrado questi problemi di comunicazione il convegno è stato definito all’unanimità un successo; apparentemente si era contenti per il semplice fatto di esserci, di incontrare persone di altri paesi e altre discipline, di provare a capire che cosa cambia con la circolazione sempre più rapida della letteratura nel mondo. Forse certe volte non è tanto importante capire, ma solo sentire che si è partecipi della vasta comunità globale che si sta formando.