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 2012  dicembre 09 Domenica calendario

IL PESO POLITICO DI UN ATTO, LE RISPOSTE CHE ATTENDE IL PAESE - È

la risposta di Mario Monti a Berlusconi. Alla sfida del Pdl il presidente del Consiglio ha replicato alzando un vessillo su cui c’è scritto: non mi faccio logorare. Quindi legge di stabilità, certo: ma da approvare al più presto, prima di Natale, senza temporeggiare e senza mercanteggiare. Ognuno in Parlamento dovrà assumersi le sue responsabilità, se si vuole evitare l’esercizio provvisorio. Subito dopo le dimissioni del governo, senza ulteriori attese di altri passaggi che non verranno.

La legge elettorale è una chimera buona solo per allungare il brodo di una legislatura che ormai è finita. Ed è finita in questo modo poco glorioso soprattutto per gli scossoni provocati dal ritorno di Berlusconi. Il Quirinale ha tentato in ogni modo di individuare un sentiero non traumatico per congedare con dignità il Parlamento. E c’è riuscito dal punto di vista istituzionale. Tuttavia è ormai evidente una dinamica politica ed elettorale lacerante. Berlusconi dice di essere tornato «per vincere». Che creda o no alle sue stesse parole è irrilevante. Quel che conta è che l’ultima crociata berlusconiana si traduce in un elemento di forte destabilizzazione del quadro politico.

Non è tanto Berlusconi a far paura ai suoi avversari, quanto la minaccia di una campagna tutta costruita contro l’Europa, la Germania, l’austerità economica e quant’altro. Tre mesi di questa medicina rischiano di essere troppo per un sistema comunque fragile e per la nostra stessa capacità di stare nell’Unione in modo credibile, con le finanze pubbliche a posto. Ora, è chiaro che le dimissioni annunciate da Monti avranno l’effetto di accelerare i tempi della crisi e probabilmente dello scioglimento. Deciderà, s’intende, il capo dello Stato. Tuttavia da ieri sera c’è un fatto nuovo di cui tener conto. L’ipotesi che le elezioni siano anticipate di qualche settimana, rispetto all’ipotesi del 10 marzo, diventa assai realistica. La nuova ipotesi parla del 10 febbraio.

Il gesto del premier, peraltro, non ha solo conseguenze istituzionali. Ne ha alcune politiche e ben delineate. Contro i tre mesi di logoramento si era pronunciato il Pd, pur rispettoso del sentiero tracciato dal Quirinale. Tre mesi in cui i democratici avrebbero dovuto consumarsi nel difendere Palazzo Chigi dalla prevedibile offensiva di Berlusconi (posizione obbligata, ma scomoda sul piano elettorale). E la convergenza di interessi era inevitabile, dal momento che il diretto interessato, il premier, non intendeva a sua volta farsi logorare. È la risposta di Mario Monti a Berlusconi. Alla sfida del Pdl il presidente del Consiglio ha replicato alzando un vessillo su cui c’è scritto: non mi faccio logorare. Quindi legge di stabilità, certo: ma da approvare al più presto, prima di Natale, senza temporeggiare e senza mercanteggiare. Ognuno in Parlamento dovrà assumersi le sue responsabilità, se si vuole evitare l’esercizio provvisorio. Subito dopo le dimissioni del governo, senza ulteriori attese di altri passaggi che non verranno. La legge elettorale è una chimera buona solo per allungare il brodo di una legislatura che ormai è finita. Ed è finita in questo modo poco glorioso soprattutto per gli scossoni provocati dal ritorno di Berlusconi. Il Quirinale ha tentato in ogni modo di individuare un sentiero non traumatico per congedare con dignità il Parlamento. E c’è riuscito dal punto di vista istituzionale. Tuttavia è ormai evidente una dinamica politica ed elettorale lacerante. Berlusconi dice di essere tornato «per vincere». Che creda o no alle sue stesse parole è irrilevante. Quel che conta è che l’ultima crociata berlusconiana si traduce in un elemento di forte destabilizzazione del quadro politico. Non è tanto Berlusconi a far paura ai suoi avversari, quanto la minaccia di una campagna tutta costruita contro l’Europa, la Germania, l’austerità economica e quant’altro. Tre mesi di questa medicina rischiano di essere troppo per un sistema comunque fragile e per la nostra stessa capacità di stare nell’Unione in modo credibile, con le finanze pubbliche a posto. Ora, è chiaro che le dimissioni annunciate da Monti avranno l’effetto di accelerare i tempi della crisi e probabilmente dello scioglimento. Deciderà, s’intende, il capo dello Stato. Tuttavia da ieri sera c’è un fatto nuovo di cui tener conto. L’ipotesi che le elezioni siano anticipate di qualche settimana, rispetto all’ipotesi del 10 marzo, diventa assai realistica. La nuova ipotesi parla del 10 febbraio. Il gesto del premier, peraltro, non ha solo conseguenze istituzionali. Ne ha alcune politiche e ben delineate. Contro i tre mesi di logoramento si era pronunciato il Pd, pur rispettoso del sentiero tracciato dal Quirinale. Tre mesi in cui i democratici avrebbero dovuto consumarsi nel difendere Palazzo Chigi dalla prevedibile offensiva di Berlusconi (posizione obbligata, ma scomoda sul piano elettorale). E la convergenza di interessi era inevitabile, dal momento che il diretto interessato, il premier, non intendeva a sua volta farsi logorare. Del resto, l’attacco a tutto campo di Berlusconi ha cambiato il quadro. La campagna elettorale si delinea come uno scontro pro o contro l’Europa. Fra chi crede nel futuro delle politiche europeiste, nonostante i sacrifici che queste comportano, e nella prospettiva dell’integrazione non solo economica, ma anche politica. E chi ne diffida e non crede nell’Unione e forse nemmeno nella moneta comune. Ieri Monti aveva replicato a Berlusconi, senza nominarlo ma in modo trasparente. Aveva accusato il "populismo" e chi lo agita considerandolo una "scorciatoia" verso il consenso. Era una risposta politica a un’offensiva politica. L’Europa contro l’anti-Europa. In serata l’annuncio delle dimissioni sono state quindi un altro passaggio politico. Si potrebbe dire che il presidente del Consiglio "tecnico" è uscito di scena ed è nato il Monti uomo politico. Perché quel gesto, per il modo in cui è stato formalizzato e per il contesto in cui è maturato, è senza dubbio carico di significati politici. Consolida il centrosinistra, si è detto, contro il pericolo di logorarsi davanti al berlusconismo "lepenista". Ma crea anche le condizioni perché Monti resti sulla scena a interpretare, forse anche a guidare, l’area moderata che Berlusconi ha abbandonato seguendo la propria deriva estremista. È l’area che fa riferimento al Partito Popolare europeo e che oggi appare in cerca d’autore, ossia di una leadership. I nomi si conoscono: Casini, Montezemolo, Fini, Riccardi, i dissidenti europeisti del Pdl (Frattini e gli altri). Un mondo variegato, con una forte componente cattolica, che cerca una proiezione politica perché avverte il vuoto. Per cui fra il "populismo" berlusconiano e un centrosinistra in cui Bersani deve faticare non poco per assorbire le posizioni di Vendola, ben sapendo della diffidenza internazionale nei suoi confronti, esiste sulla carta un largo spazio. Si tratta di individuarlo, riempirlo e dargli un senso politico. Monti ne sarà capace? Lo vedremo nelle prossime settimane. Per ora sappiamo che l’unica leadership possibile in quest’area è la sua. Se riuscirà in una forma o nell’altra a darle voce e rappresentanza, può darsi che il presidente del Consiglio oggi dimissionario possa ritagliarsi un ruolo nella prossima legislatura, i cui equilibri dovranno comunque fondarsi su un forte mandato popolare. Di certo si può dire che le dimissioni annunciate ieri sera e da collocare all’indomani della legge di stabilità sono un gesto di dignità che fa bene alla politica e che servono a ripulire il terreno di gioco da tante scorie.