Paolo Valentino, la Lettura (Corriere della Sera) 09/12/2012, 9 dicembre 2012
A CENA CON LA STORIA. L’OSSESSIONE DI OBAMA
Tutti i presidenti americani sono ossessionati dalla storia. E tutti, una volta rieletti, vivono il secondo mandato avendo soprattutto in mente il giudizio dei posteri. Per rimanere ai più recenti, Ronald Reagan — il vincitore della guerra fredda — si trasformò da falco in colomba, sognando a occhi aperti un mondo senza armi nucleari e aprendo a Mikhail Gorbaciov tanto credito da creare qualche problema al suo successore. E neppure nei momenti più imbarazzanti del caso Lewinsky, Bill Clinton rinunciò a lavorare per il suo lascito, cercando l’impossibile miracolo della pace in Medio Oriente. Perfino George W. Bush si pose il rovello, rovesciando la sua iniziale indifferenza. Nel 2003, a Bob Woodward che gli chiedeva come la storia avrebbe giudicato la guerra in Iraq, aveva risposto: «La storia? Non lo sappiamo, saremo tutti morti». Ma nella primavera del 2008, nel suo viaggio d’addio nelle capitali europee, Bush chiese esplicitamente a Gordon Brown di organizzare per lui a Downing Street una cena con i migliori storici inglesi, che tempestò di domande sugli effetti a lungo termine di certe decisioni politiche.
Barack Obama fa eccezione per eccesso. Primo afroamericano a occupare lo Studio Ovale, il posto nella storia se lo è già conquistato con l’elezione del 2008. Ma per il quarantaquattresimo inquilino della Casa Bianca quello è stato solo l’inizio. Deciso ad avviare il Paese su una nuova strada, indicandogli un obiettivo comune in una fase di crisi e incarnando una figura trascendentale e unificante sul modello di Abraham Lincoln e Franklin Roosevelt, Obama ha mostrato per la narrativa presidenziale un interesse molto più ampio e profondo di tanti suoi predecessori. Soprattutto, non ha atteso la rielezione prima di porsi il problema.
La tradizione l’ha inaugurata infatti già nel giugno 2009, a sei mesi appena dall’insediamento, quando un gruppo di nove storici americani venne discretamente invitato a cena nella family dining room della Casa Bianca, per una discussione a ruota libera col presidente. Ne sono seguite altre due, nel maggio 2010 e nel luglio 2011. L’intensità della campagna elettorale ha impedito a Obama di organizzarne una quarta quest’anno, ma fonti dell’amministrazione assicurano che il nuovo invito agli studiosi è imminente, probabilmente subito prima o subito dopo la seconda inaugurazione.
A sorprendere i commensali nel primo desinare fu subito il tipo di conversazione pilotata dal padrone di casa. Poca curiosità sulle personalità e sugli aneddoti presidenziali, poche domande sui Padri fondatori. Invece, una raffica di quesiti, motivati da un intento più generale: come applicare la lezione di successi e fallimenti dei predecessori al proprio disegno strategico. Cosa fece Franklin Roosevelt a ogni passaggio critico della Grande depressione? È possibile seguire oggi l’esempio di Teddy Roosevelt, usando il potere esecutivo per lanciare programmi progressisti aggirando il Congresso? In quale tradizione americana si colloca la protesta del Tea Party? In che modo Ronald Reagan riuscì a farsi rieleggere nel 1984, nonostante un’economia debole?
«Bisogna dargli credito di aver cercato d’imparare l’arte della leadership presidenziale, ecco perché guarda alla storia e agli storici», spiega David Kennedy, professore a Stanford e uno dei regolari partecipanti alle cene. «Obama sa che la storia non ti dice cosa fare, ma ti suggerisce idee importanti sul modo di ragionare sulle tue scelte da presidente», aggiunge un altro degli invitati, H. W. Brands, docente alla University of Texas.
Ma le cene con gli storici sono esse stesse una storia in miniatura della prima presidenza Obama, specchio fedele degli entusiasmi e delle frustrazioni che ne hanno segnato il dipanarsi, puntuale cartina di tornasole dell’umore di un leader, il cui ritmo biologico non è stato quasi mai sincronizzato con quello del sistema politico nel quale agiva. Ma per il loro carattere riflessivo e analitico, per Obama quelle cene sono state anche un sorta di antidoto al ritmo bulimico e infernale di Washington, dove la politica è un’Apocalisse quotidiana.
Così, dall’ottimismo del 2009, quando Obama si godeva ancora la luna di miele e levitava al 63 per cento di popolarità, si era passati alla cupezza dell’anno seguente, con il presidente alle prese con l’opposizione dei Tea Party, che alla cena definì «anormale» nella sua virulenza. «È la politica del risentimento», gli fece notare nell’occasione lo storico Robert Dallek, il quale paragonò il nuovo movimento ai populisti dell’Ottocento, motivati soprattutto dalla paura della modernità e dall’ostilità verso l’immigrazione non anglosassone.
All’ultimo appuntamento, quello del luglio 2011, Obama arrivò con livelli di popolarità molto bassi, impigliato nei negoziati sul tetto del debito e con gli Usa per la prima volta declassati dalle agenzie di rating. Fu lì che gli storici, ormai non solo osservatori ma anche consiglieri, suggerirono un nuovo modello di riferimento. «Gli parlammo a lungo di Teddy Roosevelt», racconta Douglas Brinkley della Rice University. Fu in particolare Doris Kearns Goodwin, la storica prediletta da Obama, a far notare tutte le analogie tra lui e il repubblicano-progressista. Era stato il libro di Goodwin, Team of Rivals, the Political Genius of Abraham Lincoln, a ispirare a Obama nel 2009, sull’esempio di Lincoln, la scelta della rivale Hillary Clinton come segretario di Stato. Toccò ancora a lei indicare il nuovo riferimento: come Obama, Theodore Roosevelt aveva vinto il Nobel per la Pace nel 1906, era spesso stato in conflitto con il Congresso, aveva teorizzato l’assistenza medica universale e lanciato un’agenda progressista aggirando Camera e Senato. Risultato: lo scorso dicembre, in Kansas, Obama pronunciò un discorso ispirato a Teddy Roosevelt, nella cui stesura Goodwin ebbe un ruolo centrale e nel quale si ridefinì come campione della classe media e delle politiche contro l’ineguaglianza. Un testo considerato il fondamento intellettuale dei prossimi quattro anni.
Ora che si è assicurato un posto nel club dei presidenti rieletti, Barack Obama ha l’occasione della vita. Il tema della prossima cena con gli storici è scontato: in che modo far coincidere la propria ambizione strategica con le realizzazioni concrete, le promesse con i fatti; in che modo trovare quella connessione con l’opinione pubblica che troppo spesso nei primi quattro anni è mancata. «I don’t lose», non perdo, ha detto il presidente a un vecchio amico la sera del 6 novembre a Chicago. Ma ora che ha vinto alle urne, Obama dovrà vincere nel governo. La maledizione del secondo mandato, che ha offuscato schiere di presidenti, da Nixon a Bush jr., passando per Reagan e Clinton, è lì a rendergli difficile varcare le porte della storia.
Paolo Valentino