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 2012  dicembre 09 Domenica calendario

3 articoli – CLIMA, I GRANDI INQUINATORI NON FIRMANO L’ACCORDO — La partita, forse una delle più cruciali, della Conferenza delle Parti, il vertice delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, convocato per il diciottesimo anno, questa volta a Doha, in Qatar, si è chiusa ieri sera ai tempi supplementari con un sostanziale pareggio tra velocisti e maratoneti della corsa ai ripari contro il riscaldamento globale

3 articoli – CLIMA, I GRANDI INQUINATORI NON FIRMANO L’ACCORDO — La partita, forse una delle più cruciali, della Conferenza delle Parti, il vertice delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, convocato per il diciottesimo anno, questa volta a Doha, in Qatar, si è chiusa ieri sera ai tempi supplementari con un sostanziale pareggio tra velocisti e maratoneti della corsa ai ripari contro il riscaldamento globale. Insoddisfatto il ministro italiano dell’Ambiente Corrado Clini: «Invece di fare un passo avanti, la comunità internazionale ha fatto un passo indietro. Non si è riusciti a trovare un accordo in grado di dare concretezza e continuità di impegni presi a Kyoto». «Ma sarebbe potuta andare peggio», ammettono molti ambientalisti, pur preoccupati dall’elefantiasi del processo internazionale in confronto all’urgenza delle contromisure invocate dagli scienziati. Il Protocollo di Kyoto scade a fine dicembre, ma raddoppia per altri 8 anni, come volevano l’Unione Europea, l’Australia, la Norvegia, la Svizzera, che (a differenza del resto del mondo e di partner massicci, come gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone) ne riconoscono i vincoli legali e, quindi, sono potenzialmente sanzionabili in caso di inosservanza. Un impegno che vale però soltanto per la loro quota di emissioni: meno del 15% del totale rilasciato annualmente nell’atmosfera. Il «Kyoto 2», come è definito in «gergo climatico», farà da ponte fino all’accordo globale che dovrebbe entrare in vigore nel 2020, secondo il progetto approvato l’anno scorso a Durban, per impegnare legalmente l’intera comunità internazionale a ridurre le emissioni di gas serra entro limiti precisi. Secondo Greenpeace il secondo periodo di Kyoto lascia aperte ancora troppe scappatoie ai governi firmatari e, ovviamente, ai Paesi che lo hanno votato senza sacrificargli la loro sovranità nazionale. Secondo il responsabile delle politiche europee di Legambiente, Mauro Albrizio, i tredici giorni (uno in più del dovuto) di trattative sono serviti perlomeno a salvare l’unico strumento internazionale vincolante a disposizione e a quantificare, in un documento annesso, la progressione dei tagli pattuiti alle emissioni di carbonio: «Non si è stabilito invece come colmare il gap di 8-13 miliardi di tonnellate di carbonio (per intenderci, il doppio o il triplo di quanto emette in un anno l’intera Europa) che corre tra quanto hanno promesso di tagliare i delegati e quanto invece occorrerebbe tagliare, a giudizio degli scienziati, per mantenere il riscaldamento globale entro il limite di sicurezza di 2 gradi centigradi per il 2100. Si è deciso di trovare una soluzione entro il 2014, ma sarebbe stato molto meglio farlo a Doha». L’impresa era difficile, a fronte della resistenza di alcuni negoziatori giunti con il mandato, dai rispettivi governi, di non accettare — quanto a energia fossile — limitazioni superiori a quelle dei Paesi concorrenti, sul piano industriale e commerciale. E di fronte al blocco russo-ucraino-polacco, che ha tentato fino all’ultimo di far valere vecchi crediti sulle emissioni: persa la battaglia, il delegato di Mosca ha percosso il suo banco con la bandierina, in un’involontaria imitazione di Kruscev con la sua scarpa, 50 anni fa all’Onu. Infine la Cop18 non ha chiarito quali e quante risorse economiche i Paesi sviluppati siano disposti a garantire ai Paesi più poveri nei prossimi otto anni, perché solo alla Cop19 di Varsavia verrà formalizzato il programma di aiuti tra il 2013 e il 2020, quando si dovranno trovare 100 miliardi di dollari l’anno, sotto forma non di contanti ma di tecnologia verde, know-how e altre risorse per mitigare le conseguenze delle catastrofi climatiche sempre più intense e sempre più frequenti, E per adattare infrastrutture e stili di vita all’inevitabile inasprimento delle condizioni atmosferiche. A Doha i primi segnali sono venuti dall’Europa: l’Inghilterra ha promesso 2 miliardi e 200 mila euro per due anni, la Francia 2 miliardi per un anno e la Germania 1,8 per un anno. Con l’aggiunta di qualche finanziamento da Danimarca, Olanda e Norvegia, il totale attualmente a disposizione per l’anno prossimo arriva a circa 8 miliardi di dollari. Elisabetta Rosaspina E IL BILANCIO DEI SUMMIT FINISCE IN ROSSO - La discussione sui cambiamenti climatici non è del tutto uscita dai radar, di certo è scesa in basso nella lista delle priorità dei governi e nell’interesse delle opinioni pubbliche mondiali. E la conferenza di Doha terminata ieri — la diciottesima dal 1995 — non ha alimentato gli eventuali entusiasmi rimasti. Che si potessero fare passi avanti verso un accordo sui limiti alle emissioni di gas serra era escluso dall’inizio: da quando la Grande Crisi economica è iniziata, non c’è più stato un vertice nel quale si sia andati in quella direzione. Il summit di Copenaghen del 2009 — fallito e con Stati Uniti e Paesi emergenti che isolarono l’Europa, da sempre l’area più impegnata nella limitazione delle emissioni — indicò l’incapacità di queste mastodontiche riunioni/trattative di raggiungere risultati. Già ai vertici di Nairobi e di Bali del 2006 e del 2007 si era denunciato il «turismo climatico» di molti delegati: da quando, l’anno successivo, è scoppiata la crisi, i mega summit si sono svuotati di interesse. Ora, la promessa fatta a Doha dai Paesi ricchi di compensare quelli poveri per i danni prodotti dai cambiamenti del clima sembra vaga e in buona parte un impegno vecchio. Per il resto, si è per lo più allungata la vita degli impegni già in essere. La recessione e l’attenzione prioritaria su crescita economica e occupazione hanno rivelato che i vertici annuali sul clima sono fondati su una strategia oggi per molti (Usa e Paesi emergenti) insostenibile. Mettere limiti rigidi alle emissioni di gas serra è costoso: fino a che l’economia è cresciuta, si sono fatti (modesti) passi avanti nelle trattative, anche se poco significativi nel contenimento futuro del surriscaldamento globale. Ora è chiaro che la politica di stabilire tetti alle emissioni è in crisi e che una Kyoto Due che la rilanci è piuttosto lontana. Forse meglio abbandonarla per prendere altre strade: soprattutto, in alternativa, sostenere la ricerca di nuove ed efficienti tecnologie per le energie rinnovabili. Danilo Taino LA CALDA EUROPA DEL 2050. TERRE SPOPOLATE E MARI PIU’ ALTI - Gli europei devono cambiare e adattarsi ad un nuova realtà per fronteggiare una situazione climatica che entro il 2050 sarà molto diversa dall’attuale. È la conclusione di un’indagine dell’European Environment Agency mirata ad individuare come il riscaldamento influisca sull’atmosfera, l’ambiente e le popolazioni ipotizzando gli indispensabili interventi di difesa. Il punto di partenza è la previsione di un aumento della temperatura media nel nostro continente variabile a seconda delle regioni da 0,5 a 2,5 gradi centigradi; valutazione inserita nella prospettiva di un pianeta più caldo globalmente di 3-4 gradi per il 2100. Ciò causerà un aumento dei fenomeni meteorologici estremi (ondate di calore, tempeste più ricche d’acqua, più violente e più frequenti), come in qualche caso stiamo già sperimentando, che creeranno maggiori problemi nelle regioni del Nord e del Mediterraneo. L’aumento del livello dei mari costringerà Paesi come l’Olanda ad affrontare interventi ambientali più consistenti di quelli già praticati finora, con spostamenti della popolazione. In Adriatico Venezia, per fare un esempio, dovrà affrontare la stessa situazione. Per le coste si assisterà ad una riduzione di quelle pianeggianti e ad una più incisiva erosione delle scogliere. Le coltivazioni rappresentano un punto debole particolare. L’aumento della temperatura metterà in crisi le piantagioni come oggi sono distribuite costringendo a far ricorso a piante diverse più resistenti al calore. Alcune terre saranno abbandonate, per cui si prospetta la necessità di aiuti a Paesi poveri come Bulgaria, Romania e Turchia che potrebbero diventare produttivi anche per il resto dell’Europa. Le specie marine migreranno più a nord alla ricerca di acque più fresche. Intanto i diversi afflussi d’acqua porranno problemi alle centrali idroelettriche aumentando le disponibilità invernali e riducendo quelle estive. Le economie in generale si troveranno di fronte a varie difficoltà e anche la salute delle popolazioni dovrà essere meglio tutelata. In proposito si ricorda che nella torrida estate del 2003 le vittime furono 35 mila. Le risposte a questi problemi non possono attendere. Ma prima di tutto bisogna esserne consapevoli. Giovanni Caprara