Maria Teresa Cometto, CorrierEconomia 10/12/2012, 10 dicembre 2012
FILANTROPIA. PICCOLI GATES CRESCONO (E LO SUPERANO)
Tanti piccoli Gates crescono. Già ora controllano 83 miliardi di dollari dedicati alla beneficenza in America, più del doppio del patrimonio della Fondazione di Bill e Melinda. E il modo in cui elargiscono i loro fondi sta cambiando l’intera «industria della filantropia» con effetti su tutta l’economia, anche fuori dagli Stati Uniti.
È una nuova generazione di filantropi, più giovane e con un atteggiamento imprenditoriale anche in questo aspetto della loro vita: non si limita a firmare assegni a favore di «buone cause» gestite da altri, ma vuole decidere come «investire» le proprie donazioni per avere il massimo impatto. Sono milionari di età fra i 40 e i 49 anni — molti diventati ricchi con business tecnologici — che controllano oggi il 39% delle 80mila fondazioni familiari benefiche esistenti negli Usa, secondo Foundation source, una società di servizi specializzata in questo settore. La maggioranza continua a lavorare, ma ha già cominciato a devolvere una parte della sua ricchezza senza aspettare la vecchiaia, come ha fatto invece per esempio l’ultra ottantenne Warren Buffett. «Per loro la filantropia è diventata un laboratorio di ricerca e sviluppo per idee di lavoro che possono risolvere problemi sociali profondi con l’approccio di un’economia moderna», ha spiegato la rivista finanziaria Barron’s in un’inchiesta su questo nuovo fenomeno.
Modelli
La 42anne Shaula Massena, di Seattle, e il 39enne Brendan Martin, attivo fra Buenos Aires e New York, sono due casi esemplari di questa tendenza. Diventata milionaria lavorando come ingegnere alla Microsoft — il gigante del software creato da Bill Gates —, Massena a soli 30 anni aveva lasciato l’impiego per dedicarsi ad altro. Dopo aver ottenuto dal Bainbridge graduate institute un Mba in «Modelli di business sostenibili» ha deciso di utilizzare tutto il capitale della sua fondazione familiare per investimenti di «impatto sociale a basso rendimento». Significa soprattutto concedere prestiti a condizioni speciali a persone che normalmente non hanno accesso al credito perché emarginate, diseredate o membri di minoranze. Massena ha per esempio finanziato una cooperativa di collaboratrici domestiche con un prestito da restituire — a un tasso pari all’inflazione — solo quando l’impresa avrebbe realizzato profitti, il che è avvenuto tre anni dopo. La filosofia dell’ex ingegnere si richiama a quella di Margaret Thatcher: «Non puoi regalare a qualcuno il rispetto di sé. Le donazioni creano dipendenza, non indipendenza. Se vuoi dare potere a una persona devi farlo con un investimento». E il suo nuovo progetto è un incubatore di «imprese sociali» appena aperto a Seattle per facilitare l’incontro fra investitori-filantropi e imprenditori che partono con un handicap sociale.
Comunità
Un nuovo modello finanziario che «massimizza la ricchezza della comunità» ha ispirato Martin. Erede della fortuna del padre, dottore in informatica, dopo aver lavorato a Wall Street ha scoperto la sua vocazione nel 2004 guardando un documentario sugli operai argentini che, nel mezzo della grave crisi di quel Paese, si erano organizzati in cooperative e lavoravano nelle fabbriche abbandonate. Martin è volato in Argentina e con i propri soldi ha creato il fondo non profit The working world (Tww) con cui dà credito a quelle cooperative, chiedendo loro di ripagare il debito solo quando sono in utile (il 98% lo fa). Ora Martin vuole applicare lo stesso modello negli Usa e ha cominciato a Chicago, investendo 500mila dollari in una cooperativa di lavoratori — 70% ispanici, 30% afro-americani — che lo scorso giugno ha rilevato la fabbrica Republic windows and doors, andata in crisi dopo che Bank of America aveva tagliato la sua linea di credito.
MARIA TERESA COMETTO