Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  dicembre 10 Lunedì calendario

L’ANNO A OSTACOLI DI PREMIER E MINISTRI ATTACCATI (QUASI SUBITO) DA TUTTI I PARTITI

Adesso lo osannano. Dicono che l’Italia non può fare a meno di lui. Già cominciano a rimpiangerlo, prima ancora che esca fisicamente da Palazzo Chigi. Però per un anno, svanito l’incondizionato appoggio iniziale, lo hanno (mal)sopportato, subito, temuto, ingoiato come una medicina amara: mai veramente sostenuto. E ora piangono. Ma sono, come al solito, lacrime di coccodrillo.
I primi giorni, dal novembre del 2012, erano quelli dominati dal terrore e dallo stupore. Per la sinistra essersi liberati di Berlusconi era già una droga potente. Per la destra scalzata e spodestata dal governo era l’occasione per non andare alle urne e prendere una legnata memorabile. Perciò i primi passi di Monti, accompagnati da una venerazione nei confronti del capo dello Stato Giorgio Napolitano dalla cui sottile strategia era scaturito un cambiamento impensabile quando Berlusconi sembrava gratificato dalla più ampia maggioranza parlamentare della storia repubblicana, furono accolti quasi nel silenzio generale. Passò la riforma delle pensioni, qualcosa di epocale mai fatta dai governi politici. La fase autosacrificale sembrava così predominante da non suscitare poche e blande reazioni per i primi, consistenti, dolorosi aumenti delle tasse. I partiti subivano in silenzio. Erano stati spossessati del primato. Ma, disciplinatissimi e rassegnati, mai avrebbero messo ostacoli lungo la strada di Monti. A loro, disoccupati sul piano del governo effettivo del Paese, erano invece assegnati due compiti fondamentali da sbrigare celermente in sede parlamentare. Ridurre in modo consistente i costi della politica. E varare una nuova legge elettorale. Avevano un anno di tempo. I costi della politica sono stati appena scalfiti. La nuova legge elettorale è saltata, prigioniera degli opposti veti e della cronica incapacità di decidere di partiti che covavano in silenzio il grande risentimento.
Quel periodo disciplinato durò pochissimo. Fino a pochissimo tempo prima, fuori della coalizione le proteste sociali sembravano contenute, se paragonate a ciò che stava accadendo da Atene a Madrid. C’era l’antimontismo «populista» di Grillo, della Lega e di Di Pietro. Ma la maggioranza che sosteneva il governo Monti sembrava abbastanza compatta. Arrivò però ben presto, troppo presto, il momento in cui l’insofferenza per Monti, confinata in un ambito moderato per non urtare la suscettibilità del presidente della Repubblica e soprattutto dei mercati internazionali, ebbe la possibilità di manifestarsi in forme sempre più aggressive. E da quel momento i partiti inventarono un’espressione che era come un segnale di fumo per dire che il governo Monti, parentesi necessaria, era pur sempre una parentesi da chiudere al più presto per restituire lo scettro a chi era stato detronizzato. Si inventò «il ritorno della politica»: non era una minaccia, era un auspicio.
Non potendosi sfogare compiutamente sui singoli provvedimenti, pur sempre votati in parlamento e dunque obbligatoriamente difesi anche in pubblico, l’avversione crescente verso Monti e il suo governo, anche e soprattutto dentro la sua maggioranza cominciò ad assumere la forma di un martellamento sulle parole che il premier e i suoi ministri pronunciavano. Lo stesso Monti fu messo in croce per aver detto, come battuta di spirito (almeno nelle intenzioni), che il posto fisso è «monotono». Subito si alzarono i lamenti della buona coscienza democratica: ma come si permetteva questo professore bocconiano di fare dell’ironia sulla sacralità del posto fisso? E venne attaccato il sottosegretario Martone per aver detto che era da «sfigati» andare avanti all’Università fino a 28 anni (cosa che peraltro accade solo in Italia e nessun altro Paese dell’Occidente avanzato). Oppure il ministro Profumo per aver osato proporre un aumento delle ore di lezione degli insegnati paragonabile agli standard europei: subito bollato come un nemico dei lavoratori, un negriero, uno schiavista, e quindi costretto a fare marcia indietro. Stesso trattamento riservato al ministro degli Interni Cancellieri, rea di aver detto che spesso i giovani vogliono stare troppo accanto a «mamma e papà». Ma il record dell’intensità degli attacchi ricevuti spetta al ministro Elsa Fornero, impiccata a un «choosy» e diventata il bersaglio delle critiche come ministro del Lavoro di un governo che ha sfidato alcuni pilastri della cultura conservatrice di marca Cgil. La Fornero è stata attaccata pesantemente da Susanna Camusso, è stata indicata nei cortei come la responsabile della crescente disoccupazione e del precariato dei giovani. È diventata il simbolo di un governo «antipatico» che bisognava continuare a sostenere ma nei confronti del quale cresceva sempre più il malumore, il distacco, l’insofferenza.
Dopo un avvio di slancio con la riforma delle pensioni, i partiti hanno ripreso a lodare la centralità del Parlamento, logo dove le punte più aspre del governo venivano emendate, smussate, neutralizzate, devitalizzate. Il decreto sulle liberalizzazioni si è progressivamente svuotato e le liberalizzazioni importanti che avrebbero rimesso in moto la concorrenza, a cominciare dai treni a percorrenza locale e dalle municipalizzate che sono il pascolo lottizzato del dominio dei partiti, si sono arenate rimandando ad apposite «autorità» il compito di realizzarle in un tempo indefinito. Anche sulla riforma del lavoro, la parlamentarizzazione dei provvedimenti ha portato a indebolimenti del testo originario. Tutti modi per mettere le briglie al governo Monti, tanto più attacco quanto più cresceva il disagio sociale e si avvicinava la data delle elezioni.
Oggi tutti si stracciano le vesti, temono lo spread, hanno paura del vuoto lasciato dal governo Monti, della poca credibilità dell’Italia privato del suo «tecnico» di prestigio. Ma negli ultimi mesi sembrava che la parola d’ordine fosse quella di «superare» Monti. «L’agenda Monti» era diventata quasi l’elenco dei terribili compiti a casa da svolgere solo per compiacere i mercati internazionali. Dalla sinistra, anche all’interno del Pd con il responsabile dell’Economia Stefano Fassina, si sono moltiplicati gli attacchi alla linea dettata non solo da Monti ma dall’Europa schiava del fiscal compact e dell’austerità. Nello stesso dibattito delle primarie tra Bersani e Renzi si dava per scontato che la parentesi Monti stesse per essere finalmente chiusa e senza versare tante lacrime, per la verità. Ora invece è un profluvio di lacrime, e tutti dicono che senza Monti, stavolta sfiduciato dal Pdl, l’Italia non può muovere i prossimi passi. Ci potevano pensare prima. E mostrare un po’ di attaccamento a un governo sempre meno amato e sempre meno sopportato. E non prendere a bersaglio dei cortei i ministri i cui volti campeggiavano, deformati e pieni di «abbasso», sui cartelli di protesta contro il bieco «governo Monti». Ora piangono e rimpiangono. Lacrime di coccodrillo, appunto.
Sergio Rizzo