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 2012  dicembre 10 Lunedì calendario

LE PROMESSE DEL 2008 E LA VITTORIA DEL PARTITO ANTI ABOLIZIONE — E’

noto che in Italia le promesse fatte in campagna elettorale valgono quel che valgono. Parole al vento, il più delle volte. Ma sarà interessante, in questa occasione, vedere se Silvio Berlusconi ripeterà quello che disse nel 2008 alla signora Ines di Forte dei Marmi durante una chatline al Corriere: «Non parlo delle Province, perché bisogna eliminarle». E non era certo l’unico, nel suo Popolo della libertà, a pensarla così. Di più: della stessa idea non erano i peones del partito, ma i pezzi da novanta a lui fedelissimi. Il superberlusconiano capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto sentenziava il 29 novembre 2008: «L’appello sull’abolizione delle Province va preso in seria considerazione. C’è un gran bisogno di qualche altro taglio di spesa». E il ministro Renato Brunetta, competente per quella materia, gli faceva eco il 4 dicembre: «Le Province? Sono enti inutili, non servono». Proprio vero…
Come è andata, lo sappiamo. E si potrebbe amaramente concludere: lo avevamo detto. La maggioranza di centrodestra si è ben guardata dall’affrontare una questione sulla quale si erano detti d’accordo quasi tutti anche a sinistra. Se si eccettua l’uscita dell’ex ministro Roberto Calderoli, nell’agosto 2011, che aveva proposto di chiudere soltanto le Province più piccole. Idea subito smontata e quindi abortita. Erano le settimane in cui l’Italia si affacciava pericolosamente sull’orlo del baratro. In una lettera alla quale aveva dato un robusto contributo la Banca d’Italia, la Bce chiedeva al governo italiano durissimi interventi, sottolineando la necessità di riforme quali appunto l’abolizione delle Province.
E con l’uscita di scena del Cavaliere e l’arrivo di Mario Monti la musica sembrava cambiata. Il decreto salva Italia aveva ridotto le Province a enti non più elettivi, privi di qualunque funzione: la premessa per la loro scomparsa. Sarebbe stata però necessaria un’altra legge entro il 2012 per fissare le modalità della dissoluzione dei consigli.
Inutile dire che le Province non se ne sono rimaste con le mani in mano. Subito è partito un ricorso alla Corte costituzionale. Ed è stato così che nella scorsa estate, anche con la motivazione di evitare la scure della Consulta, il governo ci ha ripensato: anziché l’abolizione, la riduzione per decreto. Più o meno con il vecchio e discutibile metodo Calderoli, ma fermo restando per le Province sopravvissute il principio di avere organi di governo non più eletti a suffragio universale. Peccato che anche questo progetto, sostenuto a parole, abbia incontrato fortissime resistenze nei corridoi del Palazzo. Dove il partito delle Province, forte di una decina di presidenti di giunte provinciali seduti in Parlamento, ha sempre manovrato, agguerritissimo, per guadagnare tempo. Perché più le elezioni si avvicinano, più le leggi che tagliano poltrone perdono forza. Questa è la regola in Italia.
Tuttavia è certo che in nessun Paese normale a pronunciare la condanna a morte di un simile provvedimento sarebbe stato proprio il partito il cui leader aveva promesso agli italiani l’abolizione delle Province. Perché è questo il significato della pregiudiziale di incostituzionalità presentata a palazzo Madama dal pidiellino Filippo Saltamartini addirittura prima che Monti annunciasse le sue dimissioni. Pur sapendo che il gesto costerà 500 milioni l’anno: tanto, dice il ministro Piero Giarda, sarebbe il risparmio dovuto all’accorpamento delle Province. Molto più di quanto sarebbe costato rinunciare all’election day, che il segretario del Pdl Angelino Alfano aveva rivendicato proprio con l’esigenza di evitare inutili sprechi.
Ma poco importa. Tirerà un respiro di sollievo il deputato del suo partito Antonello Iannarilli, presidente della Provincia di Frosinone che per protesta ha mandato giù un bel sorso di olio di ricino. Davanti al Senato, pensate un po’! Idem potrà fare il sindaco di Prato, Roberto Cenni, protagonista di una sconcertante conferenza stampa seduto su una tazza da gabinetto a segnalare la propria indignazione davanti alla prospettiva di vedere la sua Provincia tornare sotto Firenze. Come al tempo dei Medici, non sia mai! E pure Cosimo Sibilia, figlio dell’ex patron dell’Avellino calcio Antonio Sibilia, e come Iannarilli parlamentare e presidente di Provincia: Avellino, appunto. Si è dannato l’anima per far saltare il decreto che l’avrebbe costretto a fondersi con Benevento. Gli irpini insieme ai sanniti? Contro natura! Brinderà, Sibilia, con Ciriaco De Mita, ottantaquattrenne eurodeputato dell’Udc che forse non si voleva rassegnare a cedere il capoluogo al rivale beneventano Clemente Mastella: anch’egli, grazie alla prodigiosa regola secondo cui certi politici non possono mai restare a spasso, parlamentare (per il Pdl, dopo l’evaporazione del suo Udeur) a Strasburgo. E brinderanno tutti insieme al senatore Claudio Fazzone, potente capo del partito a Latina, tanto ostile al decreto del ministro Filippo Patroni Griffi da farsi autore di 400 dei 700 emendamenti che gli sono piovuti addosso in Senato. Magari ci sarà anche Antonio D’Alì, il quale nei mesi scorsi aveva chiesto che fossero considerate nei parametri minimi di superficie anche le piattaforme marine antistanti le Province: lui è di Trapani. E chissà se accetterà l’invito il relatore del Pd Enzo Bianco convinto che dagli accorpamenti debbano essere escluse le Province confinanti fra loro per meno di 25 chilometri. Come Viterbo e la più piccola Rieti, che finirebbe per essere annessa: ma si dà il caso che la prima sia in mano al Pdl, mentre presidente della seconda è il democratico Fabio Melilli. Margheritino d’origine, proprio come Bianco. Guarda un po’…
Sergio Rizzo