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 2012  dicembre 10 Lunedì calendario

AUSTERITÀ E CRESCITA, GLI USA SALVANO LA UE

Prima l’austerità e poi la crescita. La prima l’abbiamo da tempo ma la seconda non si vede, e se la ricetta non ci ha ancora soffocato lo dobbiamo a Obama, che questa ricetta non la applica. Ma quando è nata l’idea che per investire bisogna aver prima risparmiato? Essa è presente già in Adamo Smith, se lo si legge superficialmente. Poi la straordinaria fortuna della stessa idea le fa percorrere l’intera storia della teoria economica. Fino a quando arriva Keynes che, con la forza della disperazione che viene dal vedere i danni che l’idea ha fatto quando è stata applicata dopo la prima guerra mondia-le, riesce a capovolgerla e afferma che, al contrario, sono gli investimenti a determinare i risparmi. Dopo un po’ e specie guardando a quello che accade durante la seconda guerra mondiale, l’eresia keynesiana diviene la nuova ortodossia Poi, a partire dagli anni settanta, quando una ondata di inflazione colpisce gli Stati Uniti, i cosiddetti monetaristi di Chicago tornano ad affermare la vecchia ortodossia. L’inflazione è per loro un fenomeno monetario e se si vuole colpirla a morte bisogna operare riducendo drasticamente il tasso di incremento della quantità di moneta.

Nsegue dalla prima ell’Europa continentale la vecchia ortodossia, rilanciata dai monetaristi, non era in realtà mai passata di moda. Economisti assai rispettati, come Einaudi in Italia, chiamati a operare come ministri nell’immediato dopoguerra, quando infieriva l’inflazione,
avevano cercato, con successo, di domarla con una politica restrittiva, nella convinzione che bisognasse praticare la deflazione se si voleva, in un secondo stadio della cura, far ripartire la crescita. In Italia come in Germania, questo accadde. Ma il ritorno alla crescita si realizzò solo quando la capacità produttiva inutilizzata indotta dalla deflazione interna fu sbloccata dalla domanda estera, risuscitata dalle necessità della guerra di Corea, che fece salire enormemente la richiesta di materie prime e prodotti industriali. In aggiunta, negli Stati Uniti si applicava ancora la nuova ortodossia keynesiana. I governi democratici di quel paese non cercarono di spegnere con una deflazione la domanda aggiuntiva indotta dalla guerra di Corea e prima ancora, dalla enorme liquidità che era andata in mano ai cittadini durante la guerra mondiale, quando era tornata alla piena occupazione, con alti salari che stimolavano i consumi. I ministri liberisti europei, che credevano nella politica dei due stadi, che si dovesse prima risparmiare e poi investire, pur sconfitti nella pratica, avendo debellato l’inflazione ne derivarono grande prestigio. Avevano bloccato le loro economie, che solo la opposta politica economica praticata negli Stati Uniti riuscì a far ripartire, insieme ai generosi aiuti del piano Marshall e a quelli per finanziare le spese della difesa in Europa. La fortuna della teoria dei due stadi è sopravvissuta così fino ai giorni nostri ed ha acquistato nuovo prestigio quando il problema principale è divenuto quello della crescita del debito pubblico, generale ma assai maggiore in alcuni paesi del Sud Europa, che è stata resa possibile dalla domanda di titoli da parte di paesi incapaci di impiegare in casa tutto quel che gli viene dalle esportazioni di petrolio e materie prime. Al debito pubblico i paesi sviluppati hanno fatto ricorso quando la spesa ha cominciato a crescere senza freni, e non si è voluto finanziarla con una tassazione maggiorata in proporzione. L’introduzione della moneta unica ha diffuso la convinzione che i paesi più ricchi dell’Europa avrebbero anche fornito una garanzia implicita ai debiti di quelli più poveri. A un certo punto, tuttavia, la classe politica dei paesi ricchi del centro dell’Europa ha cominciato a preoccuparsi perché il rallentamento della crescita anche a casa sua imponeva di far fronte alle entrate fiscali minori con il debito pubblico. Per paura che il prestigio del proprio debito fosse contaminato dalla mancanza di freni alle spese dei paesi più poveri, quelli ricchi, con in testa la Germania, hanno ritenuto opportuno negare pubblicamente qualsiasi impegno a fornire garanzie anche solo implicite sui debiti pubblici della intera zona euro. Questa ritirata è stata accelerata dalla crisi finanziaria scatenatasi negli Stati Uniti. La crisi di fiducia nei mercati finanziari che essa ha indotto ha reso ancora più riluttanti i governanti dei paesi ricchi ad assumersi responsabilità per quelli più poveri, e dalla loro opinione pubblica, opportunamente manovrata da media e giudici costituzionali, è venuta una minacciosa richiesta alla classe politica a dettare ai paesi poveri e debitori una precisa ricetta di politica economica: la fine dei deficit pubblici e del debito in veloce crescita. Per fortuna dall’altra parte dell’Oceano i governi, avendo a che fare con una politica di potenza, non si sono potuti permettere di abbracciare la teoria dei due stadi. Hanno continuato bellamente a spendere, facendo crescere il debito e affrontando la crisi con una politica monetaria straordinariamente espansiva. Niente ortodossia monetarista, dunque, negli Stati Uniti. Ne hanno beneficiato anche i paesi europei ricchi, che hanno potuto iniziare una riforma della politica economica europea, forzando quelli poveri, e loro stessi, ad adottare il fiscal compact, che segue la teoria dei due stadi, che non è riuscita, grazie alle misure americane, a sortire tutti i propri malefici effetti in Europa. Altra fortuna per l’Europa, avere messo alla testa della Bce un banchiere che ha studiato in America e che ha imitato, finora, la politica monetaria della Federal Reserve, pur dichiarando, per rassicurare autorità e opinione pubblica nei paesi ricchi, la propria ortodossia e la fiducia nella politica dei due stadi. Le miserie dei paesi poveri sono state dunque in parte contenute dalle politiche opposte praticate da Cina, Stati Uniti e Bce. Chi prevarrà, alla fine? Il nostro fato è appeso agli esiti elettorali tedeschi.