Ettore Livini Affari&Finanza, la Repubblica 10/12/2012, 10 dicembre 2012
NON SOLO SEA, LE PRIVATIZZAZIONI DELLE SPA DI COMUNI E PROVINCE UN FALLIMENTO ANNUNCIATO
[Deserta l’asta per la Serravalle, bloccate tem e pedemontana lombarda. Torino cerca di sistemare l’aeroporto di caselle e i trasporti urbani. Roma vorrebbe piazzare Acea, ama e Atac, ma non ce la fa] –
Doveva essere la stampella del bilancio dell’Italia. La gallina dalle uova d’oro destinata a dare un bel colpo di forbice al nostro debito pubblico. E invece la grande asta delle municipalizzate tricolori - appena avviata - è già finita su un binario morto, vittima della “Sindrome della Sora Camilla”. Tutti le vogliono, ma - quando c’è da mettere i soldi sul tavolo - nessuno se le piglia. La legge è uguale per tutti: nemmeno la Lombardia, la regione più ricca del paese, è riuscita a piazzare i suoi gioielli. La quotazione della Sea ha fatto flop per assenza di compratori e per problemi di governance. L’ asta per la Serravalle e le autostrade attorno a Milano è andata deserta. Un caso? Tutt’altro. Torino, dopo aver piazzato per il rotto della cuffia il suo termovalorizzatore a F2I, lotta contro il tempo per sistemare la Gtt (trasporti pubblici) e l’aeroporto di Caselle. Roma - visti gli scarsi risultati degli altri enti locali - lavora a ritmi da moviola alla sua superholding dove piazzare Acea, Ama e Atac. Centinaia di enti locali in tutta Italia sono nelle stesse difficili condizioni: costretti a vendere i gioielli di famiglia in zona Cesarini (a un passo dal 31 dicembre, data di chiusura dei bilanci) per non sforare la camicia di forza del patto di stabilità. Senza però riuscire a trovare clienti disposti a comprare la mercanzia sul tappeto. La posta in gioco La posta in gioco per l’Italia è altissima. Il business della Enti locali
Spa è un gigante che fattura 43 miliardi di euro, dà lavoro a 186mila persone, garantisce una serie di servizi - trasporti, acqua, luce, gas, fogne e rifiuti - fondamentale per la collettività. E ha in programma, questo in teoria è il boccone più appetibile per i futuri proprietari, qualcosa come 115 miliardi di investimenti, calcola l’Istituto per le ricerche della pubblica amministrazione (Irpa). Avvicinando l’obiettivo, però, si scopre una caotica galassia di 6mila società che nominano 16mila dirigenti manna per ogni amministratore locale - con strutture proprietarie e gradi di efficienza molto diversi tra di loro. Il governo Berlusconi aveva aperto il cantiere per la sua completa privatizzazione, approvando una legge che obbligava entro lo scorso agosto Comuni, Regioni e Provincie ad avviare un percorso che avrebbe portato alla dismissione delle loro controllate, limitando a un tetto di 200mila euro la possibilità di affidare servizi e appalti senza asta ad imprese pubbliche. E malgrado la Consulta abbia bocciato questa legge, anche l’esecutivo di Mario Monti ha messo la vendita delle municipalizzare come cardine - assieme ai saldi del mattone di Stato - per ridurre i 2mila miliardi di debito pubblico. I saldi non funzionano Peccato che sia il Cavaliere che il premier del governo tecnico avessero fatto i conti senza l’oste. Per fare un affare bisogna essere in due. Chi vende e chi compra. E di compratori per il nostro piccolo capitalismo municipale - contrariamente alle aspettative - ce ne sono davvero pochi. «Perché? I problemi principali sono due - spiega Carlo Stagnaro, direttore ricerca del-l’Istituto Bruno Leoni - il primo è che la sentenza della Corte Costituzionale ha stravolto le regole del gioco ed è chiaro che fino a dopo le elezioni questa partita non si riaprirà. La seconda è che le basi d’asta sono troppo alte e che i paletti di cui sono infarcite (non toccare dipendenti, orari e contratti) ne depotenziano le possibilità di successo». «Basta vedere come i problemi di governance abbiano contribuito al fallimento della partita Sea aggiunge Gianpaolo Attanasio, partner di Kpmg - Il pubblico deve fare solo l’azionista lasciando la gestione al privato». Il risultato è sotto gli occhi di tutti. I compratori stranieri, tra rischio-paese e allergia alle complicazioni legate ai servizi pubblici locali - tipo in qualche caso una certa dose di collusione con la criminalità organizzata - latitano. Anche perché alle aste su servizi (in teoria) regolati ma senza regolatore non possono partecipare. Sul fronte domestico si muovono invece sempre i soliti noti. F2I, il fondo di Vito Gamberale, le concessionarie autostradali private e l’Atlantia dei Benetton. Oltre alle municipalizzate come la Iren che lavorano a fare da catalizzatori dei processi di aggregazione su acqua, rifiuti o energia. «Da un paio d’anni però per noi è tutto più difficile - ammette in camera caritatis il numero uno di una di queste realtà - In primis perché è costoso indebitarci per acquisizioni. E anche le banche, pronte una volta a far quadrato e accompagnare in ottica di sistema- paese l’evoluzione delle municipalizzate, hanno stretto i cordoni della borsa». La crisi di liquidità Il modello virtuoso è la Rwe tedesca, il gigante dell’elettricità nato federando le ex Spa pubbliche regionali. Tanti piccoli Davide diventati un grande Golia in grado di dire la sua sullo scacchiere elettrico europeo. Metterlo insieme però è un’altra cosa. Il capitalismo tricolore è fondato più sulle relazioni che sui quattrini. E oggi, senza liquidità, non va lontano. Gli istituti di credito non si possono più permettere di lasciare aperti i rubinetti della liquidità. Faticano a finanziarsi a tassi decenti e in un anno hanno visto sparire 77 miliardi di depositi esteri ritirati dai loro caveau. La mancata quotazione della Sea come il flop delle autostrade lombarde e i problemi di Torino sono figli di queste difficoltà. Per Linate e Malpensa - due bocconi appetibili - i pochi investitori istituzionali pronti a mettere mano al portafoglio pretendevano un forte sconto da un venditore costretto a far cassa in tempi brevi. Pedemontana, Serravalle & C. sono al palo perché nessuno ha voglia di imbarcarsi in un’avventura che richiede almeno 400 milioni di denaro fresco per ricapitalizzare le controllate. Mentre Torino non trova compratori per i suoi bus nonostante la valutazione di base sia assai più bassa dei valori effettivi a causa di una governance post-privatizzazione che nessuna azienda di livello internazionale può accettare. Problemi che vanno in replica come in un sequel cinematografico ad ogni tentativo di privatizzazione di una municipa-lizzata. Gli interventi necessari A pagare il conto più salato alla paralisi del processo sono l’Italia, i suoi conti e le prospettive di ripresa della sua economia. Tutti i piani straordinari per dare un colpo di scure al nostro debito pubblico fanno perno sull’alienazione del patrimonio immobiliare e delle Spa locali. La crisi dei debiti sovrani ha però messo ko i prezzi del mattone. E l’invendibilità di Sea & C. complica ulteriormente il quadro. Mal comune, vien da dire, mezzo gaudio. Pure Spagna e Grecia (specie Atene) hanno congelato i processi di privatizzazione per mancanza di acquirenti visto che i big internazionali snobbano ormai il sud dell’Europa per dirottare altrove i loro capitali. Che fare? «La prima cosa è rimettere mano alle regole e creare un quadro di riferimento certo - sostiene Stagnaro - nessuno partecipa a una partita senza arbitro e dove non esiste un regolamento ». Non solo. In questo periodo di vacche magre - dice chi come la Kpmg ha fatto da advisor a molti dei processi avviati e mandati in porto nella galassia delle municipalizzate Spa - bisogna dare una mano a chi è pronto a scommettere. « Servono agevolazioni fiscali come la detassazione delle plusvalenze da fusione per agevolare le aggregazioni e premi per i Comuni più virtuosi». In qualche maniera ci aveva pensato già il governo Monti, ma le buone intenzioni sono rimaste al palo. Chiunque avrà le redini dell’Italia dopo le prossime elezioni, però, dovrà per forza riaprire il cantiere della privatizzazione delle società locali sperando che prima o poi la Sindrome della Sora Camilla diventi un (brutto) ricordo del passato.