Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano 7/12/2012, 7 dicembre 2012
“CONSULTA, LEGGE INVENTATA PUR DI DISTRUGGERE I NASTRI”
[Il professor Cordero: “Napolitano non può pretendere l’immunità della quale godevano i monarchi sabaudi”] –
Una gaffe tira l’altra: così nasce l’infelice storia”, spiega Franco Cordero, professore emerito di Procedura penale alla Sapienza ed editorialista di Repubblica, che ieri ha ospitato un suo commento contro la decisione della Corte Costituzionale sul conflitto d’attribuzioni tra la Procura di Palermo e il Colle.
Professore, questa vicenda era nata sotto pessimi auspici, a partire dalle inopportune telefonate tra il senatore Mancino e il Quirinale.
Era poco persuasivo l’ex ministro testimone su oscuri rapporti tra Stato e mafia: qualcuno lo smentisce; gl’indaganti scavano; vuol schivare il rischio d’un confronto e cova l’idea d’una fuga dalla Procura palermitana. Tale l’argomento d’un molto irrituale sos al Quirinale. La risposta corretta sarebbe: materie simili non competono al Presidente; usi le difese fornite dal codice.
Ma il Colle, invece, risponde...
L’appello trova terreno favorevole presso un consigliere giuridico: da otto dialoghi tra i due vediamo come l’augusta persona s’interessi al caso (affiora anche l’ipotesi d’una deposizione concertata col partner dell’ipotetico confronto); gl’indaganti erano in regola, quindi lasciano il tempo che trovano interventi presso la Procura generale della Cassazione e la Procura nazionale antimafia. Il tutto finisce nei nastri, perché l’ex ministro soggiaceva a controllo telefonico. Non li direi retroscena edificanti: era un passo falso sostenere d’avere esercitato i poteri dell’altissima carica; qualunque cosa raccontino i cultori d’un fiabesco diritto costituzionale, il Presidente non è organo censorio d’atti giudiziari, legittimato a interloquire sottobanco nei singoli procedimenti. Poi solleva un conflitto d’attribuzioni, affermando che i nastri contenenti quattro dialoghi suoi rimasti segreti vadano clandestinamente distrutti, subito. Ricorrendo alla Corte, butta la spada sulla bilancia. Gesto pericoloso, innesca il dilemma segnalato da un presidente onorario: il commento alla decisione negativa sarebbe che l’eversione s’annidi anche lassù; nel caso inverso nasce il sospetto d’un servizio cortigianesco.
La Consulta accoglie il ricorso.
E nella logica perversa della gaffe complica l’affare anziché scioglierlo. L’impresa trascendeva l’intelletto umano: riconoscere al Presidente carismi ancien régime, confermati a Carlo Alberto e successori dallo Statuto (persona “sacra e inviolabile”, art. 4), senza uscire dall’attuale sistema normativo.
Ha scritto su Repubblica che il diritto è in qualche misura anche geometria e che se ne manomettiamo le regole, “vengono fuori faticosi sgorbi”.
Sì, m’ero permessa una metafora geometrica: sarebbe come disegnare nello spazio euclideo un triangolo i cui angoli non misurino 180°; e se non vi riesce nemmeno Iddio (vedi Spinoza contro Cartesio), nessuno poteva aspettarsi miracoli dalla Consulta. Siccome le decisioni non sono più oracoli, ma richiedono i motivi in una dialettica prestabilita, erano da compatire i quindici o quanti fossero, costretti all’impossibile: da 65 anni non ha più corso la mistica dell’inviolabilità; il Presidente è un signore che più o meno bene adempie funzioni laiche; e se finisce casualmente intercettato, conversando col sottoposto a tale misura, non può pretendere l’immunità della quale godevano i monarchi sabaudi. La Corte tira in ballo l’art. 271 c.p.p., i cui contenuti non hanno niente da spartire col nostro caso: e non è questione ardua; ogni studente attento la risolve ictu oculi (a prima vista, ndr). Che poi, sepolta nella Carta, una norma implicita restauri l’immunità dei sovrani sabaudi, non s’è arrischiata a dirlo; diamogliene atto: l’almanaccabile ha dei limiti. Negli applausi trasversali volano bolle vaniloque, lontane dalla sintassi del diritto.
La Consulta rimprovera alla Procura di non aver violato il principio del contraddittorio e impone ora un’eliminazione sottratta alla conoscenza delle altre parti. Tutto regolare?
Ordinando al giudice una distruzione immediata dei nastri, da nascondere alle parti e possibili interessati, la Corte estrae ex nihilo una norma che, se esistesse, sarebbe invalida: può darsi che i materiali in questione forniscano argomenti utili; e il contraddittorio è requisito indefettibile d’ogni processo, ricordiamoglielo (artt. 24 e 111 Cost.).
Si parla della questione come se la partita fosse chiusa: è così?
Partita chiusa, nel senso che quel giudice sia obbligato alla distruzione clandestina dei nastri galeotti? No, la Corte gl’impone d’applicare una norma che crede d’avere scovato nell’art. 271: fantasma d’una norma ma su questo punto la decisione lo vincola; senonché letto così, risulta invalido; e la mossa dovuta è un’ordinanza che investa della questione la Corte, affinché dica se e come l’atto comandato sia compatibile con i modelli imposti dalla Carta. Qualcuno dirà che sia già risolta, qualora ne parlino i motivi della sentenza deliberata l’altro ieri. Ancora no: sono due processi dall’oggetto distinto; uno stabilisce il da farsi rispetto al materiale controverso; l’altro vaglia la conformità dell’art. 271 ai canoni del contraddittorio.
Supponiamo che il giudice
sollevi la questione di costituzionalità, i nastri nel frattempo che fine fanno?
Restano nella cassaforte, finché la Consulta abbia deciso.