Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 8/12/2012, 8 dicembre 2012
I TANTI FRATELLI DI ARBASINO ITALIANI SENZA MALINCONIA [A 50
anni dal libro che lo rivelò, lo scrittore si racconta senza filtri] –
Se solo avesse voglia, dalle finestre affacciate su una stagione che filtra l’avaro chiarore di un tramonto invernale, Alberto Arbasino ritroverebbe simboli, graffi e premonizioni della sua giovinezza. Le ancore del ministero della Marina: “Ossigenarsi a Taranto/è stato il primo errore/l’ho fatto per amore/di un incrociatore”. Il Tevere non più biondo sotto i cui ponti incontrò per la prima volta Pasolini: “Lui in costume da bagno, io vestito di tutto punto, non sono certo che abbia apprezzato la provocazione, ma dovevo andare in redazione, al Mondo”. Gli aerei in cielo, diretti a Fiumicino. Gli incipit di quando i Fratelli d’Italia erano senza meta, destinazione, traguardo. “Siamo qui da un’ora all’aeroporto senza colazione aspettando due amici di Antonio che arrivano adesso in ritardo da Parigi; si mangerà un pesce se si farà in tempo sul molo, in un bel posto degli anni scorsi che forse per quest’anno già non va più tanto bene; e non abbiamo ancora avuto un momento per parlare della nostra estate, che ormai è qui”. Il rifiuto stilistico del trivio: “La magica potenza del vaffanculo si sprigiona nel discorso orale, sulla pagina è brutto”.
La laicità: “All’inferno ci va chi ci crede”. La Roma in cui smarrirsi da provinciale a fine anni 50 tra appartamenti in finto legno “come una scatola di sigari” e feroci soprannomi: “Non c’era nessuno che si salvasse, anche e soprattutto in coppia. Maria Bellonci, l’ideatrice del Premio Strega, era ‘l’aquila a due tette’, Goffredo, il consorte, ‘il grullo del focolare’”. Nei rigori di gennaio, Arbasino compirà 83 anni. Ha i capelli in ordine, il velluto in tinta, la concentrazione vigile: “Mario de’ Fiori, non Campo de’ Fiori, mi raccomando”. L’amor proprio da opporre all’autodissoluzione senile di tanti suoi simili. Al Céline “stanco, confuso, in stato di assoluto abbandono” intervistato nel ’57 e mai più dimenticato, Arbasino ha sempre preferito la pazienza dei copisti di Flaubert. Bouvard. Pécuchet. L’elaborazione del presente. La sperimentazione futurista. Due divani. Libri, silenzio, piante, quadri, cuscini, lumi d’epoca. Una segreteria telefonica come filtro sul mondo: “Siamo fuori, ma qui di seguito, per i messaggi, ci sono la segreteria telefonica e il fax. Grazie”.
Sta suonando. Lascia squillare a vuoto?
È la mia salvezza. I pochi che pensano di sorprendermi a tradimento: “tanto all’ora di pranzo lo becchiamo, dove vuoi che sia?”, trovano una barriera e si arrendono. Gli scocciatori fuggono. I cialtroni emigrano altrove. Gli amici non la bevono. E in quel caso, appena ho tempo, rispondo.
Le manca il tempo?
Sono nato nel ’30 e cerco di non sprecarlo. Però non coltivo misantropie, esco, frequento i miei coetanei e non mi barrico. Per abitudine, ho sempre lavorato tutto il giorno. La sera, come è ovvio, covo un sano desiderio di evasione.
Lei ha conosciuto una Roma diversa.
Nel mito più che nella realtà. Anche se nell’altra casa, quella milanese, vado poco e Roma tra un viaggio e l’altro è rimasta il mio centro, posso assicurarle che la Dolce Vita qui scorreva relativamente. Un lampo effimero in un contesto più monotono di quanto non si immagini.
Abbattiamo la leggenda?
Ricollochiamo senza enfasi verità e mitologia. Spiegare a un ragazzo di oggi cosa significhi camminare in una città senza traffico è impossibile, ma a Roma, vivevamo così. Non c’erano moto rombanti, automobili o ingorghi. Abitavo a due passi da via Frattina e parcheggiavo senza problemi Lambretta e 600 sotto casa mia.
In quanto al relativo divertimento?
Quando Moravia andava al Caffè Aragno, quello in cui Amerigo Bartoli aveva dipinto sacralmente Cecchi, Cardarelli e Ungaretti e il loro gruppo di amici intorno ai tavoli, non parlava nessuno. Lo stesso spettacolo fiorentino dei caffè degli ermetici. L’aria tipica di ogni cenacolo intellettuale con la sua etichetta. Ogni tanto Alberto non ne poteva più e per la noia usciva a contare le macchine che passavano su via Del Corso. Un sabato sera tornò sconsolato dopo un’ora: “Ne sono passate 7 in tutto”.
Il ribaltamento dell’età dell’oro.
Ogni epoca può avere il suo tedio e ogni punto di osservazione il proprio sbadiglio. Flaiano raccontava che prima della Dolce Vita, il massimo dell’evasione consentita a fine serata era prendere una China calda dietro il bancone della farmacia gestita in Piazza San Silvestro dal fratello del celebre Garinei. Alle 23, non all’alba. Antonio Delfini, inquieto, non si dava pace. “Dove si va, dove si va adesso?”. E noi in coro. “E dove vuoi andare? Si va a dormire”. “Ma io vengo da Modena, la notte di Roma non è eterna ?”.
Un coprifuoco?
Non è che ballassero occasioni sfrenate. A una certa ora, persino Flaiano andava a casa. E anche se negli occhi abbiamo sempre la Fontana di Fellini, erano cristallizzati persino i costumi. All’inizio di via della Frezza c’era la vetrina di una modista. Amava esporre lo stesso cappello per mesi. Flaiano, osservatore attento, ci passava davanti a intervalli regolari: “Vediamo se questa volta ha cambiato modello”. E lo stesso, in via Lombardia, a pochi metri da via Veneto.
E la via Veneto di Fellini e di Anouk Aimée?
Si andava là sul tardi, a orari spagnoli, dopo l’ultimo spettacolo e le cene in trattoria. C’erano, immancabili, Pannunzio, Patti, De Feo, G. G. Napolitano, Franca Valeri, Nora Ricci, Caprioli e tanti altri.
Però tra artisti vi incontravate.
In via Frattina c’era la “Trattoria romana”. Chi arrivava per primo si sedeva, gli altri si aggiungevano. Tavolate enormi, larghissime, abituali. Eravamo giovani, si stava bene insieme. Bolognini, Zeffirelli, Tirelli, Tosi, Nuvolari, Missiroli, Adriana Asti, Laura Betti. Pranzavamo lì tutti i giorni e uscivamo barcollando alle 3 del pomeriggio. Ridevamo tra noi: “È l’ora del dileggio”. Poi a cena si andava da “Cesaretto”, con Flaiano, Giovanni Urbani, Sandro Viola. Comisso arrivava dal Circeo. Discussioni infinite.
E conversazioni disordinate.
Certo che erano disordinate. Per fortuna. Ho vissuto il periodo degli anni 60 tra scoperta e lutto. Di Feo e Pannunzio morirono a neanche 60 anni, Parise, mio coetaneo, troppo presto. Poi Pasolini, Calvino, Feltrinelli, Ottieri, Testori. In due ondate e due decenni sono scomparsi tutti quelli con cui avevo confidenza.
Gli amici sono diventati titoli di convegni.
E centri studi, aule universitarie, edizioni complete. Man mano che si va avanti e i coetanei sono sempre di meno, ci si ritrova un po’ spaesati e soli. Assecondando l’abitudine della città io continuo a uscire, ma non trovo più le stesse persone. In fondo a via Dei Gracchi c’è un’ottima trattoria. Ci vado e ci andavo da giovanotto, circondato dagli ambasciatori presso la Santa Sede, dai professionisti, dalle famiglie e anche da amici che non avevano nessun desiderio di mostrarsi agli amici stessi.
Capitava?
Capitava. Una volta ero lì in vasta compagnia quando il proprietario del locale viene ad avvertirmi: “Il professor Manganelli vorrebbe salutarla”. Mi alzo, vado dal “Manga” e lo invito a unirsi a noi. Conosceva tutti, sarebbe stato naturale. Si fece piccolo: “Non dire che mi hai visto, mi raccomando”. Indossò il cappotto e sparì da un’uscita secondaria.
Ha nostalgia di quel
teatro vivente?
Non covo grandi nostalgie, ho avuto un’infanzia e un’adolescenza abbastanza tristi. Voghera, la vita di famiglia e il contesto delle casalinghe, erano più noie che sorrisi in realtà. Qualche ricordo lontanissimo si manifesta. Ma nella terza, anzi nella quarta età è normale.
Che tipo di ricordi?
Reminiscenze ridicole, canzonette trasmesse alla radio dall’Eiar. L’orchestra Barzizza, l’orchestra Angelini. “Sogno, sogno e non ti sogno”, “Dolce chimera sei tu”, “La pastorella sa…”. Poi rinsavisco e mi chiedo come mai.
Come mai cosa?
Come mai mi vengano in mente delle simili stronzate, non è che si possa provare una seria nostalgia per quella roba lì. (Sorride)
Però si può.
Si può avvertire qualche dolore per epoche ancora non del tutto invase dai media e dal turismo di massa. Per i capodanni in Brasile con una valigia leggera. Abiti chiari. Due tappe. Sosta a Dakar e poi giù, in Sudamerica, vestiti di bianco, a fare il bagno nel trapasso tra notte e giorno.
Sapevate viaggiare.
Ipanema, Copacabana, la musica, la gioia di vivere che quel continente, assieme alla ricchezza, ha perso in un sol colpo. Sorgeva il nuovo anno e tu osservavi il principio sullo sfondo delle macumbere con le candele. Sarebbe lecito rimpiangere, ma non ne vale la pena. È stato bello e basta.
Anche se cambia.
Anche se cambia. Pensieri selvaggi a Buenos Aires, il mio ultimo libro, è la fotografia di una mutazione e di un imbarbarimento che avevamo già intuito. I chicos de rua, le bande armate, le inferriate, i vigilantes, gli avvertimenti: “Non andate a Rio, è pericolosa” Certo, ai nostri tempi nessuno aveva un orologio al polso e rapinare un morto sarebbe convenuto di più, ma l’atmosfera si è incattivita.
Giurano stia migliorando.
Sarà. Una volta erano “Tristi tropici”. Oggi la tristezza tropicàl ha invaso le metropoli e se vai a Montevideo, Baires o Lima, le scopri cupe, di una mestizia tremenda.
Sapevate anche scherzare. In Addio a Roma Sandra Petrignani racconta feroci burle ai danni di
Carlo Emilio Gadda.
Gadda, da vecchio gentiluomo, non sapeva radersi e si recava dal barbiere molto presto di mattina. Incontrava spesso Parise, suo vicino di casa in zona Camilluccia, diretto alla posta di via Blumenstihl. Parise, divertitissimo, mi aveva confessato che con apposita modifica, la carta del nuovo formato dell’Europeo di allora permetteva di creare “uccelli” smisurati. Parise li confezionava e poi in busta anonima li spediva alla Bellonci e alle altre dame letterarie della città. Gadda aveva visto gli involucri indubitabilmente fallici e temeva che il timbro postale del quartiere potesse ricondurre a lui.
Era davvero preoccupato l’ingegner Gadda?
Preoccupatissimo. Parise faceva molti scherzi, ma nutriva generosità inattese. Trovava vecchie , rarissime stoffe di seta di prima della guerra e le regalava. Me ne donò un paio. L’idea di cercare tessuti estinti perché ne godessero altri era molto poetica.
Nel 2013 il gruppo ’63 compirà mezzo secolo.
Ma sono il punto di vista e il momento storico che danno valore e memoria alle cose. Quando nel ’67 mettemmo in scena la Carmen a Bologna con i costumi di Giosetta Fioroni tra i fischi, gli insulti e le grida: “Abbasso i capelloni” a causa delle tradizionalissime parrucche da armigeri medievali indossate dai protagonisti, nessuno conosceva Roland Barthes. Rimase con noi per due settimane dando suggerimenti e seguendo le prove. Poteva girare tranquillamente per la città. Ignorato da tutti. Pochi mesi ancora e sarebbe stato impossibile. Non c’era una sola persona che prevedesse il ’68.
Il suo giudizio su Frammenti di un discorso amoroso, il testo più noto di Barthes?
È un bel libro, a dire il vero ne avevamo visti di imbarazzanti a partire dal suo Système de la mode.
Torniamo al Gruppo ’63.
Ricordo una Palermo calda d’ottobre. La gente faceva il bagno in piscina e i convenuti discutevano su programmi di rottura. Eravamo una vera piattaforma generazionale di trentenni diversi, tutti già in buone posizioni entro il boom economico di allora, dopo secoli di miserie e fame per i letterati italiani. Volevamo quindi fare una letteratura sperimentale, senza più bisogno di tessere fasciste o di tessere per il pane.
Darci a una sperimentazione senza fini di lucro, evitare la trappola del best-seller a ogni costo, cercare, ognuno con la propria inclinazione, una strada.
Il Gruppo ebbe severe rampogne dai moraviani. De Feo de L’Espresso fu duro: “Voglio leggerli, ma non posso perché non hanno scritto nulla.
Forse non sanno scrivere”.
C’era la tradizione. E la tradizione doveva difendersi. Con il pretesto di tutelare gli interessi della nonna di Dacia Maraini, Moravia, curiosissimo, sbarcò a Palermo. Profittando della scomoda posizione di Enrico Filippini, animatore del gruppo 63 e redattore di Bompiani, Moravia pretese di assistere ai seminari chiusi. Voleva capire le dinamiche in atto, le polemiche, la sintesi di qualcosa che non codificava fino in fondo. Filippini non potè dirgli di no, ma forse, visto l’imbarazzo di tutti, sarebbe stato meglio.
Anche Fratelli d’Italia uscì nel 1963. A gennaio. Petrignani racconta che a un altro ostile osservatore del Gruppo 63, Giorgio Bassani, il libro
venne tolto da Feltrinelli e spostato in un’altra
collana senza preavviso.
Mi spiace, ma non è vero. Non gli venne tolto nulla. Né libro, né collana. In Feltrinelli convivevano due anime. Quella della redazione milanese, più moderna e aperta, e quella romana guidata da Bassani, più tradizionalista. A Milano stampavano Il dottor Zivago e Garcìa Marquez, a Roma il Gattopardo e Passaggio in India di E. M. Forster. Un bel libro, scritto a inizio ‘900, lievemente anacronistico. Bassani non voleva Fratelli d’Italia e non lo persuadeva certo l’artificio proustiano, con un finale circolare che dando sistemazione e spiegazione ai frammenti sparsi, chiudeva il giro riprendendo l’inizio. Non lo amava proprio. Eppure aveva lietamente pubblicato Parigi o cara, dicendo che ovviamente quella raccolta di articoli finiva per diventare uno di quei romanzi formazione che si scrivono una sola volta nella vita.
Così intervenne Feltrinelli?
Mi cooptò con occhio da amministratore preciso: “Lo pubblichiamo nella nostra collana, tanto gli abbiamo già versato diversi anticipi”.
Era vero?
Verissimo. Giangiacomo era un amico appassionato e “tirato”. L’impresa intellettuale doveva far quadrare i conti. Insieme abbiamo fatto almeno 11 libri. Discutendone a tavolino in due o tre. Alla sua morte provai un gran dolore. Mi sono chiesto a lungo cosa fosse successo a Se-grate nel 1972 e poi ho smesso di domandarmelo. Giangiacomo era imprevedibile. Aveva un carattere bizzarro, eccentrico, era possibile che avesse perseguito una svolta estrema, ignorata anche dai parenti.
Giangiacomo difese Fratelli d’Italia dall’ira dei
letterati.
Contro il libro, basandosi sull’assioma del “ci sono dentro tutti”, si scatenò una violenta campagna stampa. I protagonisti del mondo cultural-mondano si ritraevano: “Ci siamo tutti, ma io non sono così”. Io ero stato attento a non far coincidere pedissequamente cappellini, mariti e ambientazioni occultando la riconoscibilità dei personaggi, ma Bassani non era convinto. Credeva che ci fossero allusioni che gli sfuggivano. In ogni caso Feltrinelli si tutelò.
Ingaggiò un avvocato?
Per non prestare il fianco alle querele. Quelle in cui si viene assolti, ma intanto l’opera viene bloccata per anni. Era l’epoca dei querelatori per immoralità. Ci si basava su una precauzione. Il mantra era: “Nulla di sconveniente nelle prime 50 pagine. I magistrati arrivano a 49. Se non trovano niente, chiudono il libro”.
Dalle greppie legalitarie passò anche lei?
Adeguai al precetto L’anonimo lombardo, il mio esordio, pieno di ragazzi perduti. Tutto nella seconda parte. Come da regola. Pasolini fronteggiava un’infinità di processi, il clima era grottesco. Pensi che bloccarono L’Arialda di Testori con Morelli e Stoppa sul palco e la regia di Visconti per immoralità. Se la si vede, è di un’innocenza che stringe il cuore. Si accamparono protestatari in Piazza del Quirinale. Anche Luchino, che con collaboratori e maestranze aveva sempre il tono del signorotto. Dalle Lambrette si gridava: “Siamo con voi, non mollate”.
In Lambretta.
Le cose andavano per le lunghe. Visconti voleva farsi ricevere dal Presidente della Repubblica. E sì che ai tempi della Regina Elena, al Quirinale Luchino era di casa. Un’altera, nobile signora, altra assidua frequentatrice delle regie stanze me lo rammentava: “Non capisco come Luchino, un Visconti sia pure di Modrone, si sia presentato con gli stemmi Farnese a palazzo”. Non capiva, questa signora. Figurarsi Ninetto.
In che senso?
Era uno scherzo nato da un tenero articolo di Pier Paolo che aveva portato Davoli a vedere la neve per la prima volta. Raccontava lo stupore: “Figurarsi Ninetto”. Per ridere, di fronte ai sommovimenti mondiali, agli scandali e al caos, lo usavamo come intercalare.
Pasolini amava i giornali. Oggi il web avanza e i
quotidiani muoiono.
Mi sembra inevitabile, ma al computer non so convertirmi e finché resistono, continuo a scrivere. Sto leggendo un libro di Vigevani sulla Milano che fu. Quando ci vivevo, andavo a teatro ogni sera. Strehler, il Piccolo, il Nuovo, il Lirico, Wanda Osiris, Totò, Adani, Pagnani e la Callas. Per me che venivo da Voghera era un sogno. Gadda mi criticava. L’opera lo annoiava: “Alla fine è sempre zum zum-zum zum, partiam partiam, uffa”. Tipico Gadda.
Vecchie solfe?
Proprio così.