Ivo Romano, La Stampa 10/12/2012, 10 dicembre 2012
Destino crudele. Se perdi, niente da fare: onori e titoli sono per l’altro. E se vinci, pure. Accade sempre e comunque, quando l’altro è Manny Pacquiao, il miglior pugile in circolazione o giù di lì, uno che quando combatte ha il potere di staccare il respiratore artificiale a uno sport nobile e decadente chiamato pugilato e risvegliarlo da un coma in cui cadrà un attimo dopo l’ultimo gong
Destino crudele. Se perdi, niente da fare: onori e titoli sono per l’altro. E se vinci, pure. Accade sempre e comunque, quando l’altro è Manny Pacquiao, il miglior pugile in circolazione o giù di lì, uno che quando combatte ha il potere di staccare il respiratore artificiale a uno sport nobile e decadente chiamato pugilato e risvegliarlo da un coma in cui cadrà un attimo dopo l’ultimo gong. Puoi anche chiamarti Juan Manuel Marquez, aver tirato avanti sul ring per un paio di decenni, aver inanellato battaglie di rara bellezza e brutalità, aver collezionato un po’ di titoli mondiali, ma davanti a Pacman sarai sempre il secondo in ordine di importanza. Magari ti prenderai la rivincita, dopo aver ingoiato bocconi amari (2 sconfitte, un pari e un mare di contestazioni nei 3 precedenti), ti riapproprierai del maltolto calcolando interessi da usura. Ma, alla fine, solita storia: è Pacquiao che perde a far titolo, non Marquez che vince. Non un’incongruenza, se sono i fuoriclasse a calamitare attenzioni e riscaldare folle. Un’ingiustizia, a giudicare dal responso del ring, nel match che metteva in palio la corona Fighter of the Decade, una roba posticcia inventata dalla Wbo per dar lustro a una sfida che ne aveva a quintali, malgrado non ci fosse in palio alcun titolo. Una sfida da paura: cruenta, bollente, sanguinolenta. Pochi round, un’esplosione di emozioni. Pacquiao all’attacco, come sempre. Una macchina da pugni, senza soste. Una piccola belva, che esplode colpi in serie. Marquez risponde, a ritmo dimezzato: si conteranno 94 pugni del primo, 52 del secondo. Colpi duri, per entrambi. Pacquiao giù al terzo round, Marquez sedere per terra al quinto. E poi l’ultimo colpo, quello mortifero, sul finire della sesta ripresa, a un secondo esatto dal gong che l’avrebbe chiusa. Marquez finta un sinistro e spara un destro, corto, potente, conclusivo. Qualcuno l’ha definito uno dei più bei destri della storia recente della boxe, etichetta che può avere un senso o lasciare il tempo che trova. Pacquiao va giù, la lampadina spenta, la volontà azzerata. Alle sue spalle, a bordo ring, Mitt Romney, sfidante di Obama per la presidenza Usa, che guarda dinanzi a sé e pensa all’indietro, riflettendo come la vita riservi a tanti una dolorosa sconfitta dopo una lunga, aspra, equilibrata contesa: «Non potevo crederci: è andato al tappeto proprio davanti a me». Il resto, una medaglia e le sue due facce. Puro delirio all’angolo di Marquez, vincitore gonfio e sanguinante, e sui gradoni dell’Mgm di Las Vegas, chè il Nevada confina con la California, che a sua volta guarda in faccia al Messico, che al pugilato ha regalato fiori di campioni, Marquez uno di loro. Volti bui e preoccupati intorno a Pacquiao, soccorso dai secondi, poi raggiunto dalla moglie Jinkee, il cui nome è tatuato sul braccio del guerriero filippino, quindi portato in ospedale per accertamenti, mai di troppo in certi casi, prima delle rassicurazioni di rito: «Sono stato abbattuto da un colpo che non ho neppure visto: ma ora sto bene, nessuno problema». E poi, quel che ci si aspetta da un fuoriclasse che ha una reggia come casa e un conto in banca infinito, ma guardaai poveri del mondo e ha la Bibbia sul comodino: «Prima di tutto, voglio ringraziare Dio per averci aiutati a restare integri dopo un match così duro. Complimenti a Marquez: è stato grande, ha meritato di vincere. Un saluto ai tifosi che hanno visto il match: sono vincitori pure loro. Non mi resta che riposarmi, per poi tornare sul ring più forte di prima. Io e la mia famiglia vogliamo augurare a tutti un felice Natale e un sereno 2013». Di poche parole, Marquez: «Non so cosa ci sarà nel mio futuro: ora penso solo a festeggiare e riposarmi». Il quinto Pacquiao-Marquez, un’opzione più che plausibile. Perché il filippino che perde non è più una rarità ma resta lui il campione più in vista, l’ancora di salvezza della boxe. Senza di lui, più che una chimera i 16mila che hanno garantito il tutto esaurito nell’arena dell’Mgm, a un prezzo medio dei biglietti di circa 660 dollari, per un incasso 10,6 milioni di dollari. Senza contare il grosso degli incassi, le vendite dell’evento in payper-view (a 60 o 70 dollari, a seconda se si scegliesse l’alta definizione oppure no): in attesa di cifre ufficiali le stime parlano di sorpasso rispetto agli 1,3 milioni della sfida precedente. Perché Pacman non è solo un gran pugile, ma una specie di dio in terra. Uno degli atleti più pagati del pianeta per la rivista Forbes (62 milioni di dollari l’anno), uno dei personaggi più influenti del pianeta per il Time (classifica del 2009). Quando combatte lui, a Manila non vola una mosca. Perfino in tempi di guerra civile, ribelli e governativi si accordavano per una tregua. Una leggenda, nel suo Paese. S’è fatto da solo, partendo dalla miseria. È arrivato in alto, buttandosi in politica. Eletto deputato, punta più in alto. Vuol diventare presidente, in un futuro non molto lontano. La gente lo adora, senza alcuna distinzione. Chi gli sta intorno, chi litiga per dormire ai piedi del suo letto. I poveri filippini, cui non fa mancare il suo tangibile sostegno. È partito da sottoterra, ha scalato la vetta. È lui il personaggio, anche quando gli va male. La boxe ne ha bisogno. A questo punto il sogno è la sfida con Floyd Mayweather jr., l’unico che può fargli concorrenza. Ma Golden Boy Promotion e Top Rank, che amministrano le carriere dei due, da quell’orecchio non ci sentono. La sconfitta con Marquez ha aperto un’altra porta. La quinta sfida, forse l’ultima. Perché senza di lui la boxe è al tappeto. Pacquiao ha perso, viva Pacquiao.