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 2012  dicembre 10 Lunedì calendario

Oggi a Stoccolma i fisici David Wineland e Serge Haroche ritirano il premio Nobel per le loro ricerche di meccanica quantistica che aprono la strada a computer ultraveloci

Oggi a Stoccolma i fisici David Wineland e Serge Haroche ritirano il premio Nobel per le loro ricerche di meccanica quantistica che aprono la strada a computer ultraveloci. Bisogna risalire ahimè a 10 anni fa per trovare un fisico italiano laureato con il Nobel. È Riccardo Giacconi. Ma mentre Wineland e Haroche si muovono nel microcosmo dell’atomo, il laboratorio di Giacconi è l’universo intero. Nel 1962 aveva 31 anni ed era un cervello in fuga negli Usa quando aprì una finestra sul cielo che con i raggi X ci invia notizie di stelle esplose, buchi neri, galassie primordiali. Come Galileo inventò il telescopio ottico, lui inventò il telescopio per la radiazione X. C’è però un problema. Il suo telescopio non funziona al suolo perché l’aria assorbe i raggi X che arrivano dallo spazio. Bisogna metterlo in orbita. Il primo volò nel 1978 con il satellite Einstein e ora Giacconi sonda il cielo con Chandra, lanciato nel 1999, molto più potente. Ma l’astronomia X l’aveva fatta nascere prima, con strumenti rudimentali messi a bordo di razzi americani. «Le cose erano partite male - racconta -. Il primo dei nostri razzi esplose sulla rampa di lancio. Il secondo salì a 200 chilometri ma non si aprirono le ante che avevano protetto gli strumenti durante il volo. La terza volta andò bene. Era il 18 giugno 1962, mancava un minuto a mezzanotte. Cercavamo raggi X che allora si pensava provenissero dalla Luna. Invece scoprimmo la prima stella X, una sorgente nella costellazione dello Scorpione». Ci sta il paragone con Galileo? «Soltanto in un senso: l’epoca di Galileo e la nostra hanno in comune una enorme potenzialità di scoperte. Anzi, noi ne abbiamo di più. Oggi sappiamo che l’universo alla portata dei nostri occhi è soltanto il 3% di ciò che esiste. Del restante 97% ignoriamo tutto. Sotto questo aspetto, il 2012 è meglio del 1609, l’anno in cui Galileo costruì il cannocchiale. L’astronomia in raggi X è ciò che serve per esplorare questo universo sconosciuto, fatto di materia e di energia oscure». Genovese di nascita (6 ottobre 1931), milanese di laurea, americano per biografia scientifica, Giacconi spiega: «Noi viviamo in un mondo a bassa energia, l’energia della luce visibile. I telescopi a raggi X invece vedono fenomeni ad alta energia, per esempio buchi neri che inghiottono stelle. Bene: nell’universo i fenomeni ad alta energia non sono l’eccezione ma la regola. Solo grazie a essi potremo capire l’evoluzione dell’universo. L’astronomia in raggi X è la più adatta per rispondere alle grandi domande della cosmologia. Abbiamo una straordinaria opportunità di imparare cose nuove. Ma ci vorrebbe un telescopio per i raggi X con una potenza pari a quella che il telescopio spaziale Hubble ci offre per la luce visibile». Peccato che scarseggino i finanziamenti. «Il vero problema - dice Giacconi - è che oggi tutti i soldi della Nasa sono assorbiti da un unico colossale progetto: il James Webb Telescope, lo strumento destinato a prendere il posto di Hubble. Doveva costare alcune centinaia di milioni di dollari, siamo già a parecchi miliardi ed è in ritardo di anni. Ora si parla di lanciarlo nel 2018. Sa cosa le dico? Quando il James Webb Telescope avrà finito la sua missione, il caro vecchio Hubble sarà ancora lì a scrutare il cielo dalla sua orbita intorno alla Terra...». Giacconi il telescopio Hubble lo conosce bene: è stato il primo direttore dello Space Telescope Science Institute di Baltimora, dove affluiscono i dati del super-occhio spaziale, e ne ha organizzato la gestione su scala planetaria: «Quando nel 1978 lanciammo il satellite per raggi X Einstein, una cosa fu chiara: i dati richiedevano uno speciale trattamento preliminare, senza il quale gli scienziati non avrebbero saputo utilizzarli. Decidemmo di farlo e di mettere i dati a disposizione di tutti. Ciò ha dato un forte impulso alla ricerca. Nel caso di Hubble abbiamo fatto la stessa cosa». Odia la burocrazia e le pastoie accademiche. «Il periodo più bello della mia vita è quello in cui ho lavorato per una ditta privata, la American Science and Engineering. Per parecchi anni, mentre facevamo nascere l’astronomia X, l’unico limite è stato nei nostri cervelli. Se ci veniva un’idea buona, i soldi per metterla alla prova erano subito lì. Con la Nasa, arrivare al lancio del satellite Uhuru e poi dei satelliti Einstein e dell’attuale Chandra, è stata una fatica durata decenni». E il premio Nobel? «Anche questa è una storia lunga. Dopo la scoperta del cielo in raggi X mia madre mi diceva: che cosa aspettano? Non sai farti valere! Parlo degli Anni 70. Ai primi di ottobre del 2002, una mattina alle 6 suona il telefono. Grande spavento. Sarà successa una disgrazia? No, mi spiegano che ho avuto il Nobel. Non ci pensavo più da un sacco di tempo. Poi suonarono alla porta. Aprii e fui abbagliato dai flash dei fotografi». Che cosa sogna? «Finora è stato come guardare dal buco della serratura. Sogno un telescopio a raggi X a largo campo, che permetta di inquadrare in un solo colpo d’occhio un bel pezzo di universo».