Curzio Maltese, la Repubblica 10/12/2012, 10 dicembre 2012
DAL NOSTRO INVIATO
NEW YORK
Il film sarà in Italia dal 10 gennaio col titolo
Quello che so sull’amore.
Cast da paura, dal nuovo sex symbol, lo scozzese Gerard Butler a Jessica Biel, Uma Thurman, Catherine Zeta-Jones, Dennis Quaid. Ha incassato sei milioni di dollari nel primo week end, non proprio un flop, ma neppure un successo, soprattutto per uno che con gli ultimi due titoli aveva incassato mezzo miliardo in giro per il mondo, più di quanta accada a un bravo regista italiano in molte vite. La critica l’ha stroncato quasi all’unanimità, con punte di perfidia del
Los Angeles Times:
«Un film che non c’è alcuna ragione di vedere, a meno che non vogliate fare sesso con Gerard Butler».
In realtà
Quello che so sull’amore
è un caso esemplare di come Hollywood uccida il talento.
La storia sarebbe originale e interessante,
quella di un ex calciatore scozzese che finisce male una grande carriera nel campionato di soccer americano, perde tutto, ma decide di riconquistare l’unica cosa in cui ancora crede, l’amore per la moglie e il figlio. Una storia dolente di sogni americani e disillusioni, caos familiari, un romanzo di formazione di un quarantenne che ha rinviato la stagione della maturità inseguendo le parabole di un pallone. Soltanto che da un certo punto in poi il film prende la piega imposta dalle majors di un episodio di lusso di
Desperate housewives,
con Uma Thurman e Catherine Zeta-Jones, nell’inconsueto ruolo di mogli frustrate, a caccia grossa del bel Gerard. Il prevedibile finale non è quello aperto immaginato dall’autore.
E allora, che cosa è successo? La prima risposta Muccino la mette sotto gli occhi, mentre viene incontro nella hall dell’albergo di Manhattan. Trenta chili in più di stress, l’aria lisa di un reduce. Sembra lo stanco zio d’America del trentenne felice e sconosciuto dei tempi di
L’Ultimo bacio.
«Succede che sono venuto qui a fare il gladiatore e non ero attrezzato. Con Will Smith era una passeggiata, mi lasciava libero di girare come volevo. Qui ho capito che cos’è davvero Hollywood, un’industria spietata dove la gente racconta balle dalla mattina alla sera. Contano solo i grafici, i test, il marketing, il profitto». L’errore è stato forse illudersi di portare le sfumature agrodolci e artigianali della commedia all’italiana nella fabbrica mondiale dei generi cinematografici. «Sì, qui i generi sono ferrei, si applicano protocolli. Il nostro modo di concepire la commedia è oltre le colonne
d’Ercole, è come pretendere d’imporre il divieto delle armi in Louisiana. Se ti impacchettano il film “commedia sentimentale” si aspettano che accadono certe cose, sempre le stesse. Monicelli, Risi, Scola per la commedia americana sono arte d’avanguardia. Ho capito perché Woody Allen ormai gira soltanto in Europa».
Nel mezzo dello sfogo, compare all’improvviso Bruce Willis, qui per una prima. Lo saluta con calore, lo riempie di complimenti. È curioso sentir parlare così di Hollywood un regista italiano quarantenne che ha coronato il sogno di molti colleghi europei: è adorato dalle star, si è permesso perfino il lusso di rifiutare proposte faraoniche, come girare il terzo episodio della saga di
Twlight.
In fondo l’America riconosce il talento. «Lo riconosce e lo insegue, vero, ma come il leone insegue la gazzella, per sbranarla. Uno s’immagina che arrivato a questo punto, il difficile sia dirigere Butler o Uma Thurman o Jessica Biel o Dennis Quaid, e invece quello è stato un gioco. La fatica è fuori dal set, nell’arena dello show business. Non c’è rispetto per l’intelligenza del pubblico. Se devo fare un bilancio dopo sette anni e tre film, devo dire che ho imparato una marea di cose, come regista e uomo. Ma forse ero più sereno quando avevo di meno ».
Oggi vola a Roma. «Non vedo l’ora». Nel futuro immediato due progetti, uno americano e uno italiano, dovrà scegliere. «Sono comunque ormai con un piede qui e uno dall’altra parte dell’oceano ». Uno sradicamento estremo anche per uno come lui. «Ma non ho rinunciato all’idea di portare qualcosa dell’America da noi e viceversa». Che cosa manca al cinema italiano per superare il fatale confine di Chiasso?
«La voglia di farlo davvero. Abbiamo ancora talento. Manca forse la scrittura, la mia generazione non ha avuto Age e Scarpelli. A parte questo, rimaniamo una società chiusa, diffidente del mondo. Il berlusconismo è stato questo, un’anomalia ostinatamente provinciale, maschera-ta
di modernismo». Nei suoi film è sempre nascosto un modello classico del cinema italiano.
I Vitelloni
dietro
L’Ultimo Bacio, Bellissima
per
Ricordati di me,
il rapporto fra padre e figlio di
Ladri di biciclette
per
La ricerca della felicitàe
anche
Quello che so sull’amore.
«Nessun cinema ha prodotto tanti capolavori concentrati nel tempo come il cinema italiano fra il dopoguerra e gli anni Sessanta. Sono anche storie attuali? No, sono più che attuali, sono avanti. Per me guardare ai nostri classici non significa guardare al passato, ma al futuro».