Federico Rampini, la Repubblica 10/12/2012, 10 dicembre 2012
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK
Il tasso di disoccupazione è ai minimi da quattro anni (7,7 per cento). Per tutto il 2012 la creazione di nuovi posti di lavoro viaggia al ritmo di 150 mila ogni mese. Ci sarebbe già di che farci sognare. Ma dietro la ripresa americana c’è dell’altro: una rinascita della vocazione manifatturiera. Il revival del made in Usa è cominciato. A sorpresa, smentisce quella “regola ferrea” della globalizzazione che dagli anni Novanta ha imposto di delocalizzare i mestieri industriali verso paesi a basso costo del lavoro: in Asia, in Sudamerica, o nell’Est europeo. «Dai due ai tre milioni di posti di lavoro nei prossimi cinque anni», è il traguardo che il Boston Consulting Group considera realistico per l’industria americana (esclusi i servizi).
Posti di lavoro domestici, sul territorio nazionale: colletti blu, tecnici, ingegneri della produzione. Una svolta inattesa. Anche se Barack Obama la persegue dall’inizio del suo mandato, la missione di “reindustrializzare l’America” sembrava a molti una chimera. E invece sta accadendo, con protagonisti illustri. Apple annuncia che riporterà alcune produzioni di computer negli Stati Uniti. Altre aziende informatiche l’hanno preceduta. Tutte le case automobilistiche qui hanno ripreso ad assumere da oltre due anni. C’è perfino un ritorno di marche di abbigliamento, le prime che fuggirono verso l’Estremo Oriente. Elettrodomestici. Mobili. Macchinari. L’elenco dei settori contagiati da questa “ondata patriottica” è lungo. Ma le considerazioni politiche e d’immagine - che pure pesano - non bastano a
spiegare questi segnali d’inversione di tendenza. Vent’anni dopo il trattato Nafta (liberoscambio nordamericano) e il mercato unico europeo che segnarono l’inizio della globalizzazione “versione 2.0”; undici anni dopo l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, si sta aprendo una nuova fase? Per Harold Sirkin, che ha diretto lo studio per il Boston Consulting, «qualcosa sta cambiando nelle dinamiche dei costi relativi, coi
salari cinesi che crescono velocemente, mentre i lavoratori americani mantengono una produttività quattro volte superiore ». Il vantaggio di produttività è l’effetto un elevato volume d’investimenti da parte delle imprese. Il risultato: secondo questa ricerca, gli Stati Uniti possono riportare a casa 100 miliardi di Pil solo nell’attività manifatturiera.
È evidente la potenza simbolica di Apple. Per tante ragioni. Il colosso fondato da Steve Jobs oggi è la più grande società del mondo per il suo valore in Borsa. È identificata con il meglio della tecnologia americana, la capacità d’inventare e rinnovarsi continuamente, d’imporre trend e mode che contagiano il mondo, rivoluzionano il nostro modo di consumare informazioni, immagini, musica, o di comunicare fra noi. Proprio Apple, d’altra parte, aveva sancito in modo apparentemente irrevocabile la fine di una vocazione manifatturiera americana. Fa testo quella scritta che appare su tutti i suoi prodotti: “Designed in California. Assembled in China”. Come a dire: la Silicon Valley
conserva una leadership nel progettare, concepire, disegnare. Ma la produzione di oggetti appartiene ad altre zone del mondo. Proprio Tim Cook, il successore di Jobs e attuale chief executive, fu il cervello strategico della “catena asiatica” di produzione, tra la Foxconn di Shenzhen e altre basi operative a Taiwan. Perciò colpisce che oggi sia Cook ad annunciare un primo investimento di 100 milioni per riportare negli Stati Uniti alcune produzioni («non solo assemblaggio », precisa) di computer Mac. Proprio quelli che abbandonarono la cittadina di Fremont (a sud di san Francisco) dieci anni fa. «Abbiamo la responsabilità di creare occupazione nel nostro paese», dice Cook. La frase può suscitare il sospetto che si tratti di un’operazione politica, per ingraziarsi un’Amministrazione Obama rinvigorita dalla seconda vittoria elettorale. Tanto più che l’immagine di Apple è stata macchiata dai ripetuti scandali del suo fornitore cinese (abusi contro gli operai, catene di suicidi, scioperi). Ma gli esperti spiegano che c’è anche
una logica economica dietro il “ritorno a casa”. Eventi come lo tsunami in Giappone o le inondazioni in Tailandia hanno messo in evidenza la fragilità di una catena logistica troppo dilatata. Dal controllo di qualità alla flessibilità nel rispondere a nuove condizioni di mercato, la prossimità al consumatore torna ad avere delle attrattive.
Se Apple fa sempre notizia, altri l’avevano preceduta, nel suo stesso settore. Hewlett Packard, che vende 50 milioni di personal computer all’anno, ne produce una parte a Indianapolis. «È importante poter soddisfare gli ordinativi del cliente americano in cinque giorni», spiega il suo vicepresidente Tony Prophet. Il leader mondiale dei microprocessori, Intel, ha fabbriche in Oregon e Arizona. Perfino la cinese Lenovo,
che rilevò la divisione pc di Ibm, di recente ha assunto 115 operai come avanguardia di una nuova produzione in North Carolina. È un’inversione netta rispetto al 2008, quando alla vigilia della prima elezione di Obama la texana Dell chiuse la sua fabbrica di Austin per delocalizzare in Cina.
Altri settori confermano la tendenza. General Electric ha assunto operai qui in America per produzioni che vanno dai frigoriferi alle lavastoviglie, dalle lavatrici alle caldaie. Continental investe 500 milioni per una nuova fabbrica di pneumatici nella South Carolina, da 1.600 posti. La Ford ha assunto di recente altri 1.200 operai nel Michigan. Volkswagen e Honda hanno aumentato i loro organici nel Tennessee e nell’Indiana. Nel settore dell’auto incidono le concessioni salariali fatte dal sindacato metalmeccanico durante l’ultima crisi. Alla General Motors e alla Chrysler la confederazione United Auto Workers ha accettato che i nuovi assunti guadagnino poco più della metà. Ma il rilancio delle assunzioni è stato possibile anche perché la “cura Obama” (auto più piccole e “verdi”, tutela del potere d’acquisto attraverso le manovre anti-recessive) ha fatto ripartire il mercato di consumo, compresi gli acquisti di vetture.
Il caso più clamoroso è nell’abbigliamento. Sulle orme di American Apparel, la
startupdi
San Francisco American Giant diventa l’altra marca “tutta made in Usa”. Grazie a una distribuzione fatta esclusivamente su Internet, taglia i costi d’intermediazione e così diventa competitiva con le fabbriche delocalizzate in Asia. Cotone all’antica, zero poliestere, con queste ricette American Giant ha un tasso di redditività superiore a giganti come Levi’s. Pubblicizza maglioni “fatti per durare una vita”, e ha fabbriche solo dentro i con-
fini nazionali. Fa impressione perché il tessile fu il pesce-pilota nelle delocalizzazioni.
La Banca mondiale conferma che qualcosa sta cambiando nei rapporti di forze e nell’equazione della competitività. La sua classifica sulle nazioni “dov’è più facile fare impresa” vede una rimonta degli Stati Uniti, mentre regrediscono India e Brasile. Tra i fattori chiave: il costo dell’energia continua a calare negli Stati Uniti; l’automazione riduce l’incidenza dei salari; l’immigrazione negli Stati Uniti ringiovanisce la forza lavoro e al tempo stesso garantisce una crescita costante della platea dei consumatori. Non guasta la politica del dollaro debole perseguita dalla Federal Reserve, che
rende meno care le esportazioni made in Usa.
Qualche merito va pur dato a Obama, che della “ricostruzione industriale dell’America” fece una bandiera già quattro anni fa. «Le politiche contano - dice il capo dei suoi consiglieri economici Gene Sperling - perché dal sostegno alla ricerca tecnologica fino agli investimenti in infrastrutture, abbiamo fatto di tutto per aiutare questo circolo virtuoso». Il ritorno dell’industria fa effettovalanga, attira emuli, inverte un processo di decadimento dell’intero tessuto industriale. Come sostiene Jared Bernstein che è stato il consigliere economico del vicepresidente Joe Biden: «Nulla è più distruttivo che lasciare milioni di lavoratori ai margini del processo produttivo, esposti al logoramento della loro capacità».
EUGENIO OCCORSIO
EUGENIO OCCORSIO
«L’improvvisa esplosione dell’insourcing, il ritorno a casa delle aziende americane dopo anni di
outsourcing,
ha due motivazioni tra loro apparentemente distinte eppure concatenate: la fine della convenienza fiscale nell’investire all’estero e il fatto che costruire una fabbrica negli Stati Uniti è oggi più competitivo». Robert Engle, classe 1942, economista della School of Business della New York University dove insegna
management of financial services,
ha vinto nel 2003 il premio Nobel insieme con l’inglese Clive Granger per lo sviluppo di “metodi di analisi delle serie storiche economiche con volatilità variabile nel tempo”. Dietro il consueto ermetismo dell’Accademia delle Scienze di Stoccolma, significa che segue con criteri scientifici le dinamiche, tra l’altro, della globalizzazione.
Professore, ci spiega le due ragioni del fenomeno di cui parlava?
«Allora. La prima motivazione, quella della convenienza fiscale, è una diretta conseguenza delle complesse e interminabili discussioni sul “fiscal cliff”, l’aumento delle tasse previsto per fine anno che tanto spaventa per la riduzione dei consumi che porterà anche perché combinato con il simultaneo taglio di una serie di spese pubbliche. Bene, in questi negoziati è stato rimesso in discussione l’intero sistema fiscale degli Stati Uniti e l’unica cosa certa è che questo ne uscirà rivoluzionato sia per i cittadini che per le imprese. E un’altra cosa certa è che queste ultime saranno chiamate a più di un sacrificio. Il che è giusto, intendiamoci. Per le
corporation
finirà una serie di nicchie di privilegio a partire proprio dall’attuale regime favorevole di cui gode chi ha investimenti in essere, come le fabbriche, all’estero. Oggi accade che tutti i soldi che vengono fatturati all’estero non è obbligatorio che tornino in America, neanche quando le fabbriche producono utili. Possono essere tranquillamente depositati presso qualche banca dello Stato ospitante, o di un terzo Paese, e al fisco americano non arriva un dollaro. Tutto questo ripeto è certo, o quasi, che finirà in conseguenza dell’accordo sul “fiscal cliff” qualsiasi esso sia».
A proposito, a che punto sono le trattative? Il mondo se lo chiede.
«Mancano così pochi giorni, e così vasto è l’universo degli argomenti trattati...Però qualche speranza ce l’abbiamo. Mi sembra davvero difficile che si spinga il Paese in recessione, non bisogna neanche sottovalutare la possibilità di una serie di proroghe. Pensi che uno dei provvedimenti di questo pacchetto, cioè le misure per i tagli automatici di una serie di spese pubbliche, dal
Medicare
ai bilanci militari, è stato chiuso talmente in fretta che gli stessi relatori al Congresso hanno detto: non vi preoccupate, è solo un abbozzo, lo cambieremo sicuramente».
Come la legge elettorale in Italia, insomma. Ci spiega ora la seconda delle ragioni che indicava, le impreviste opportunità che si aprono investendo in America piuttosto che altrove?
«Collegato con il discorso fiscale che facevo, ma non solo con esso, c’è un ragionamento matematico. Il dollaro è una valuta molto sottovalutata, e questo è un bene per le nostre esportazioni. Né mi sembra che sul medio termine questa situazione finirà: la Banca centrale europea è quanto mai riluttante ad abbassare i tassi, nonostante ora gliel’abbia chiesto,
incredibili dictu,
perfino la Bundesbank. Risultato: l’euro resterà forte. Poi c’è la Cina: l’amministrazione americana dopo un braccio di ferro di anni sembra aver ottenuto che lo
yuan
sarà rivalutato pur gradualmente. Insomma, il valore del dollaro resterà basso sul medio termine, è sicuro. Non è finita. La crisi recente, se uno strascico pesante ha lasciato in America, è proprio sotto forma di una disoccupazione che sta solo lentamente rientrando. Per cui il mercato del lavoro è debole e si può assumere a costi convenienti. Viceversa, le rivolte operaie in Cina e in altri Paesi, unite al crescente sviluppo di altre piazze tipiche di
outsourcing,
dal Messico alla Romania, buon per loro, sta alzando il costo del lavoro in fasce immense di mondo. Miscelando tutti queste considerazioni, perché non investire nella madrepatria?»
Siamo di fronte ad un fenomeno strutturale o è una serie di coincidenze?
«Senz’altro la prima che ha detto per tutti i motivi esposti. Con un’aggiunta. È comunque un buon segnale che nomi come Apple o GE vogliano costruire nuove fabbriche, per non parlare dell’industria dell’auto che torna ad assumere in America. È segno di salute e anche, grazie al cielo, di ritorno del manifatturiero in America dove oggi non vale che il 12% del Pil, una percentuale ai minimi storici».