Antonio Ferrari, Corriere della Sera 10/12/2012, 10 dicembre 2012
Tradire la memoria è come tradire se stessi. Vale per tutti, ma vale soprattutto per un magistrato al quale furono affidate alcune tra le indagini più delicate della recente e insanguinata storia d’Italia
Tradire la memoria è come tradire se stessi. Vale per tutti, ma vale soprattutto per un magistrato al quale furono affidate alcune tra le indagini più delicate della recente e insanguinata storia d’Italia. Ferdinando Imposimato, 77 anni, avvocato penalista e giudice istruttore, ha deciso di ripercorrere la lunga storia dei misteri inconfessabili e delle stragi senza colpevoli del nostro Paese con il piglio dello scrupoloso ricercatore che ha avuto il privilegio di lavorare e testimoniare tanti delicati passaggi della vita nazionale. È sempre stato un funzionario verticale, quindi non gli è costato ammettere di aver sbagliato e di essersi corretto: come quando, giovane praticante al servizio della giustizia, si convinse che la strage di piazza Fontana fosse stata compiuta dagli anarchici. Essendo cresciuto nel rispetto dello Stato, rifiutava la sola idea che quello stesso Stato potesse — in qualche suo sottoscala — essere coinvolto o addirittura mandante di delitti e stragi. La consapevolezza dei pensieri più orribili divenne imperativa dopo aver attraversato da investigatore l’intero tunnel della notte della Repubblica, a stretto contatto con silenzi, opacità e omissioni. Al punto da scrivere un libro (La repubblica delle stragi impunite, Newton Compton, pagine 374, 9,90), nel quale Imposimato confessa amaramente che la verità è difficilissima da scoprire, persino quando esistono prove che però qualcuno è riuscito a stravolgere e manipolare; ma nello stesso tempo offre una chiave per continuare a cercarla. Non legandola all’esito dei processi, «che quasi mai rispecchiano la verità», ma ricostruendo tutti gli eventi, anche i più modesti, anche quelli che furono colpevolmente ignorati (in malafede), o sottovalutati (per superficialità e ignoranza). A quel punto la trama segreta di un’Italia «infelice non autonoma», vittima e complice di intrighi e nefandezze, appare con chiarezza anche quando non si conoscono gli autori delle stragi. Il giudice, che mentre andava in ufficio, quel 12 dicembre di 43 anni fa, udì l’esplosione e decise di tornare indietro e di entrare nella banca di piazza Fontana, ebbe subito sentore che quel giorno l’Italia avesse perduto l’innocenza. Ma ci volle molto tempo per mettere a fuoco depistaggi, falsità investigative per incolpare gli anarchici, la trappola per Valpreda, la pista nera, Freda, Ventura, i servizi segreti, il ruolo della Cia, e poi l’inizio di un calvario: dalla strage di Brescia a quella dell’Italicus fino al sequestro e all’assassinio di Aldo Moro nella primavera del 1978. Fu proprio questa inchiesta, che Ferdinando Imposimato condusse, a rivelargli la trama mefitica del rapporto tra poteri deviati, massoni della Loggia P2, Gladio, inquinate correnti di partiti politici, complicità istituzionali. E a scoprire quante pagine fossero state occultate. Come le prove inedite, documentate nel libro, che rivelano come un apparato dello Stato, l’Ucigos, avesse individuato l’unica vera prigione di Moro in via Montalcini proprio mentre lo statista era prigioniero delle Br. Ma nessuno intervenne. La verità fu scoperta dal direttore della rivista «Op» Mino Pecorelli e da quel grande servitore dello Stato che fu il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Entrambi ammazzati: il primo da un killer, l’alto ufficiale dalla mafia. Imposimato, che stava appunto indagando sulle omissioni dell’Ucigos, fu minacciato di morte, suo fratello rimase vittima delle violenze della banda della Magliana. Alla fine il giudice lasciò l’inchiesta e la magistratura, e andò all’estero per salvaguardare l’incolumità dei suoi familiari. Ora ha voluto rendere un nobile tributo alla memoria.