Emanuele Trevi, la Lettura (Corriere della Sera) 09/12/2012, 9 dicembre 2012
LA FORZA MITE DEGLI ITALIANI
«High quality salami». Non c’è scampo, ogni volta che prendo il treno, poco dopo la partenza, una voce registrata si diffonde in tutte le carrozze, sempre la stessa, una voce che prima in italiano e poi in inglese vanta le delizie che attendono i viaggiatori nel vagone ristorante, infallibilmente collocato al centro del convoglio così come, nei sistemi astronomici degli antichi, la Terra se ne stava, volente o nolente, al centro del Cosmo. E a un certo punto della litania gastronomica, quando il messaggio è passato alla sua versione inglese, subito dopo le «big salads», eccoli arrivare, gli «high quality salami». Con le punte aguzze dei suoi termini intraducibili, da tempo immemorabile l’italiano possiede questa notevole capacità di perforare la superficie uniforme delle altre lingue, come qualcuno che si affacci da una tenda per fare uno sberleffo, o un occhiolino. Evidentemente, così come nella musica non esiste un equivalente di «adagio», non c’è nella lingua di Shakespeare un nome che possa degnamente designare i nostri salami d’alta qualità. Confesso di aspettarlo con una certa ansia, l’annuncio bilingue del vagone ristorante, e i suoi «high quality salami» che mi fanno pensare a quelli del divino Jacovitti, insieme succulenti e metafisici, dotati di zampe e di intelletto. Li considero come una mia particolare benedizione, all’inizio del viaggio. E se dovessi scrivere un libro sull’Italia, proprio così vorrei intitolarlo, High Quality Salami.
Già, un libro sull’Italia... impresa non facile, ma fino a un certo momento storico, abbastanza ragionevole. Anche a non possedere il talento di Stendhal, Goethe o di Henry James, qualcosa di buono erano capaci di tirarne fuori anche osservatori abbastanza mediocri. Due formidabili miniere erano lì, a disposizione di tutti: un numero incredibile di opere d’arte, e un altrettanto sterminato repertorio di aneddoti, leggende, fatti di cronaca e dicerie incontrollabili che davano corpo e voce a quel carattere italiano che per secoli ha destato stupore e ammirazione universali. Di cosa si trattava, esattamente? E in che misura le fantasie dei turisti corrispondevano alla realtà dei fatti? Poco importa, se è vero che i miti non devono presentare a nessuno i loro conti, e la loro verità coincide con la loro pura e semplice capacità di perpetuarsi nel tempo.
Il carattere italiano era una specie di ingegnoso artigianato esistenziale, un istinto del piacere, una capacità di dedizione all’attimo presente. Un certo grado di indifferenza morale era largamente compensato da un senso infallibile dell’onore, così come un sostanziale ateismo trovava il suo giusto contrappeso nel culto dei santi e nel rigoglio barocco della devozione. È inutile aggiungere che tutti i miti, proprio perché derivano la loro forza dalla loro durata, hanno le ore contate. Ed è insensato dedicare energie al più umiliante e inutile dei sentimenti, che è il rimpianto del passato, il desiderio che le cose tornino così come avevamo creduto di viverle o come almeno le avevamo sognate. Non ci sarà più l’Italia di Stendhal, così come non ci saranno più le feste contadine di Pier Paolo Pasolini e le belle giornate di Raffaele La Capria. Conviene semmai guardare le cose per quelle che sono.
Chi viaggia per l’Italia, in questi anni, vede cose poco allegre. La ristrettezza delle prospettive imposta dalla crisi economica non è solo un problema materiale. Afflitta dal bisogno e dalla precarietà, la mente diventa incline al più occhiuto moralismo, e al più sordido rancore. La lunga e lugubre storia del populismo italiano attraversa, in queste condizioni psicologiche, un invidiabile periodo di salute e rigoglio. Ma ancora più del moralismo e del rancore, ciò che affligge la vita di ognuno è il sentimento che sulle proprie spalle qualcuno abbia caricato il peso di colpe che non ha commesso, o non si è mai reso conto di commettere, non godendosi in questo modo nemmeno quel tanto di dolcezza che si annida in ogni colpa individuale, consapevolmente decisa e accettata come tale. Forse non c’è stata mai nella storia umana una forma di schiavitù più efficace di questa colpa che lega con un filo tenace il singolo individuo a eventi remoti, inconcepibili, fuori dalla portata dell’intelligenza e dell’immaginazione. Come potenti veleni, nomi sconosciuti si infiltrano nel nostro sistema nervoso. Lo spread ci mette in ansia tutti, compreso chi non sa esattamente cosa sia. Una sillaba irta di consonanti piantata in mezzo alla nostra libertà come il totem di un popolo di conquistatori imperscrutabili e ostili. Questo oscuro coinvolgimento individuale nei processi della finanza internazionale è il sintomo più oscuro di una malattia mortale. È la triste, inutile, disperante parodia di quella che una volta era la responsabilità morale del singolo di fronte ai suoi pari.
Ci saranno pure degli antidoti a questa sconcertante infelicità italiana, venata di colpa e di angoscia. Dubito che questi antidoti proverranno da qualche primavera politica. Come la pubblicità, la politica parla a tutti, e in particolare a quella parte di ognuno che assomiglia agli altri. Non può fare altro. Ma i mali individuali non possono essere né guariti né leniti dai rimedi universali. Servono medicine più efficaci, capaci di rendere ancora una volta possibile l’idea di possedere una vita propria, inviolabile, irripetibile. In queste settimane, durante i miei viaggi, ho iniziato a portare con me un libro sorprendente e prezioso, un vero concentrato di speranza nel futuro dell’Italia. Lo ha scritto Paolo Albani ed è intitolato I mattoidi italiani. C’è da sapere che il nostro è sempre stato un Paese di mattoidi di qualità suprema. L’opera di Albani è una specie di enciclopedia. Vi trovano spazio creatori di lingue universali, lettori e trasmettitori del pensiero, quadratori del cerchio, profeti e inventori di nuove religioni. Gente come Carlo Cetti, autore di una Teoria del brevismo, convinto di poter sfrondare l’italiano da ogni elemento superfluo, doppie e prefissi compresi, per fargli ottenere il massimo dell’efficacia. Nel 1965, Cetti pubblicò un Rifacimento dei Promessi sposi che sfrondava il capolavoro di Manzoni riducendolo di una buona metà. Alberto Corva, invece, nel 1915 mise a punto la sua teoria della Telefonia umana, fondata su un metodo progressivo che, nel giro di pochi anni, consentiva di scambiarsi i pensieri a distanza di chilometri.
Consiglio di utilizzare il libro di Albani come un vero e proprio breviario, leggendo una biografia di mattoide al giorno. È una lettura rincuorante, un tonico morale di cui nessun italiano dovrebbe fare a meno. Solo in apparenza questo libro manca di rispetto per i suoi protagonisti. Certo, le idee dei mattoidi, e i titoli dei loro libri, fanno ridere. Ma il nostro divertimento non cancella una profonda verità morale. Come i santi, come i grandi poeti, i mattoidi incarnano tutti, a loro modo, un modello di vita esemplare. Ignari del principio di realtà e dei suoi cinici ammonimenti, vanno dritti per la propria strada sposando due qualità umane preziosissime: la determinazione da un lato, e dall’altro quella mitezza che Norberto Bobbio, nei suoi ultimi anni, additava come la suprema delle virtù civili.
Mi sembra chiaro che le caratteristiche umane che vengono fuori dal libro di Albani, così godibile e in apparenza disimpegnato, possono venire proiettate su dimensioni serissime dell’esistenza. Chiamatelo santo, chiamatelo mattoide, ma nel singolo individuo c’è sempre la più preziosa delle risorse, che è la capacità di mettere da parte le regole del mondo, con la loro ingannevole apparenza di realtà immutabili e necessarie, per inventarne altre, più ricche di felicità e di giustizia.
L’Italia è come uno di quei disegni in cui si nasconde un trucco ottico. A seconda degli elementi ai quali si presta attenzione, si vede ora una cosa, ora un’altra. E dunque, quando considero le cose dal punto di vista dei discorsi e dei saperi collettivi, l’immagine che ne ricavo è deprimente. Non può esserci felicità in una politica dove ciò che preferiamo coincide, nel migliore dei casi, con il meno peggio. Forse dobbiamo rassegnarci a un’epoca storica in cui tutte le rappresentazioni ufficiali della realtà sono marcite, ed emanano l’odore sgradevole del sentimentalismo unito alla brutalità (che si accompagnano sempre, diceva Saul Bellow, «come i fossili e il petrolio»).
Al contrario, come in virtù di un incantesimo, sono i singoli che hanno il potere di farci accedere a un grado più puro, allegro, imprevedibile della realtà. L’individuo è un miracolo, un prodigio quotidiano. In lui bene e male si fronteggiano come se nulla fosse stato ancora usurpato dalla forza devastante del collettivo, dall’ipocrisia dell’anonimo. E così, se penso al futuro dell’Italia, a una vita degna d’essere vissuta in questo grande salume d’alta qualità, non mi viene mai in mente una coalizione di governo, e nemmeno un grande movimento d’opinione, una moltitudine indignata. Penso a dei nomi, a dei cognomi, ai lineamenti che sono sempre la traccia visibile del destino. Da qualche mese, penso a Vincenzo Linarello. L’ho conosciuto questa estate, quando sono andato in Calabria per fargli un’intervista. Vincenzo vive a Gioiosa Ionica, nel cuore della Locride, ed è il presidente di una cooperativa che si chiama Goel, una parola dell’ebraico biblico che significa «riscatto». È un uomo giovane, molto affabile ma schietto nei rapporti, un cristiano fermamente convinto del valore di testimonianza contenuto nelle cose che si fanno nella vita quotidiana. Vincenzo e gli altri ragazzi della cooperativa fanno un lavoro che ha dell’incredibile. Producono frutta, e tessuti preziosi. Hanno anche dato vita a un marchio d’alta moda. Il loro principio basilare è che, in un territorio dove la criminalità sembra possedere il potere di decidere ogni aspetto della vita, e dove anche solo protestare per una macchina parcheggiata in doppia fila può costare la pelle, sia possibile produrre delle merci in maniera totalmente onesta. Assegnando alle materie prime un valore diverso da quello stabilito dalla ’ndrangheta, per esempio, o rifiutando in maniera totale e definitiva di avvalersi di quell’immenso serbatoio di riciclaggio del denaro sporco che è il lavoro nero.
Vincenzo mi ha portato a Gerace, uno dei più bei paesi d’Italia. Lì, in un piccolo laboratorio, la cooperativa ha costruito delle perfette riproduzioni dei telai antichi. Da queste macchine di legno, di prodigiosa complessità, vengono fuori tessuti meravigliosi, ornati da motivi geometrici che risalgono all’età bizantina e il cui solo nome è in grado di suggerire un’idea di raffinata ed impeccabile eleganza: l’occhio di pernice, la spiga, la rosa greca...
Vincenzo è sposato, ha dei figli, e non ha l’aria di essersi arricchito. Va in giro disarmato, senza scorta, e l’aspetto che più mi ha colpito del suo carattere è la serenità con la quale considera la vita e le sue incognite. Al momento di salutarci, sulla banchina della stazione di Rosarno, mi è venuto naturale chiedergli se non avesse paura di finire ammazzato. E dalla sua riposta, ho ricavato uno dei più grandi benefici che si possa ricavare dal dialogo con un’altra persona: la possibilità di intravedere un modo diverso di interpretare le stesse cose, di concepire una diversa gerarchia di valori e significati. «Io sono nato qui — mi ha risposto Vincenzo — e ho imparato a vivere qui. Conosco il dialetto, so come ragiona la gente». E alla fine, come se volesse esprimere in sintesi un’intera filosofia, o forse un metodo infallibile di difesa personale, ha aggiunto: «Quando parlo con qualcuno, lo guardo negli occhi». Due esseri umani che si guardano negli occhi: ecco la storia più bella che si possa raccontare sull’Italia. L’unica di cui non si sa ancora come possa andare a finire.
Emanuele Trevi