Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  dicembre 09 Domenica calendario

E IL GRANO PLASMO’ L’UOMO

Nutre un quinto del pianeta, secondo per produzione solo al mais e al riso. Ha un genoma molto più grande del nostro, perché viene dalla fusione di tre piante diverse, una erbacea e due graminacee. Questo ircocervo genetico non ha mai smesso di evolversi col suo addomesticatore, la specie umana. È il grano, nato da qualche parte tra il Tigri e l’Eufrate, e forse anche sugli altipiani del Corno d’Africa, quando i cacciatori raccoglitori umani iniziarono a selezionare inconsapevolmente alcuni mutanti delle specie selvatiche di frumento.
Dal pane alle paste, dall’amido all’alcol, dalla paglia alla crusca, è una manna per agricoltori e allevatori. Si macina, si fa fermentare, ci si costruiscono ripari. Non è difficile immaginare perché molti popoli lo venerassero come un dio. Quando nacque (la fusione genetica si concluse 8 mila anni fa, ma secondo le ultime datazioni la domesticazione cominciò almeno due millenni prima), si diffuse rapidamente tra la Persia e l’Anatolia, il Caucaso e l’Etiopia. La mappa dell’arrivo del grano in Europa sembra una marcia di conquista inarrestabile e coincide, secondo le tracce genetiche, con l’arrivo di popolazioni neolitiche dal Medio Oriente. Queste in alcuni casi soppiantarono i gruppi preesistenti e in altri si mescolarono ad essi, diffondendo per via culturale le pratiche e le tecniche agricole. Qualcosa di analogo accadde nella valle dell’Indo.

Oggi sappiamo però che questa epopea eurocentrica non è tutta la storia. Grazie a scoperte recenti si è appurato che la «rivoluzione agricola» è stata preceduta da un lungo periodo di sperimentazioni, durante il quale le tribù di cacciatori raccoglitori impararono a lavorare le piante a scopi alimentari. Nel sito di Bilancino, nel Mugello, come anche in Russia e Repubblica Ceca, sono state trovate evidenze (macine e pestelli con tracce di granuli di amido) della macinazione di radici, fusti e foglie per l’estrazione di farine vegetali (in particolare dalla tifa) risalenti addirittura a 30 mila anni fa.
Inoltre la domesticazione di piante e animali non avvenne soltanto in Medio Oriente. Cominciò in più luoghi della Terra indipendentemente, forse persino sei o sette volte in un periodo compreso tra 12 mila e 7 mila anni fa, finito il grande freddo dell’ultima glaciazione: in Estremo Oriente con il riso e il miglio; in Nuova Guinea con la canna da zucchero e la banana; in Africa con il sorgo e il caffè; in America centrale con il mais e i fagioli; sulle Ande con patate e manioca. La clemenza del clima sprigionò nuove possibilità. Quando le condizioni sono favorevoli, una popolazione umana può infatti aumentare grandemente in poche generazioni, e probabilmente fu lo squilibrio fra il numero degli esseri umani e il cibo disponibile in natura a promuovere lo sviluppo di agricoltura e allevamento. Si iniziarono così a coltivare alcune delle piante di cui già ci si cibava allo stato selvatico e ad allevare i più miti fra gli animali cui prima si dava la caccia. A questo punto agricoltori e nomadi si incontrarono e si scontrarono più volte, soprattutto nell’Africa centro-meridionale con l’espansione dei bantù a scapito dei cacciatori raccoglitori.
In questa pluralità di storie, il frumento fu forse il primo in ordine di tempo e senz’altro il più fortunato. La disposizione del continente euroasiatico, che da ovest a est comprende un’ampia fascia climatica temperata, facilitò la diffusione delle specie animali e vegetali, la loro domesticazione e lo scambio di tecnologie fra le diverse culture. Lo stesso fenomeno non si verificò nei continenti disposti da nord a sud, come le Americhe, perché le accentuate variazioni di clima e di vegetazione alle diverse latitudini impedirono tale diffusione, frapponendosi come barriere ecologiche. Il resto lo fecero le contingenze storiche: in alcune regioni dove vi sarebbero state condizioni favorevoli, come in Sudafrica e in Cile, la rivoluzione agricola non avvenne.
La posizione geografica non fu l’unico vantaggio del grano, perché, grazie all’autoimpollinazione, è anche tra le specie più semplici da selezionare artificialmente. È così flessibile da poter essere seminato prima dell’inverno in certe varietà, in marzo per altre. Si è adattato a ecosistemi assai diversi, fin nei Paesi nordici. Insomma, in fatto di malleabilità è il perfetto compagno dell’uomo e dei roditori, specie cosmopolite e invasive.
All’olivo e al grano, facilmente immagazzinabile, dobbiamo le prime civiltà urbane, l’inizio della proprietà privata, il commercio (e l’uso della scrittura che ne deriva), le prime città di Çatal Hüyük, di Tell es Sultan e di Gerico. Questo cereale ha plasmato dunque profondamente le nostre prime società, al punto che diventa controverso stabilire se sia il grano a essersi adattato a noi oppure il contrario. In ogni caso, l’Homo sapiens si trasformò in una specie culturale anche grazie a questa convivenza biologica. E qui cominciano i paradossi dell’amico frumento, perché l’accumulo di beni che esso permette ha generato pure la necessità di difendere i territori, di espandersi, di fare la guerra. L’aumento demografico innescò nuove diffusioni di popoli, colonizzazioni e conflitti.

Uscendo da una città, un campo di grano prima della mietitura ci sembra oggi un paesaggio «naturale», il condensato di tutto il bene che deriva dall’essere «biologico». Ma è un errore di prospettiva. Quella distesa di spighe dorate è il frutto di migliaia di tentativi di incrocio falliti, di selezioni incidentali di mutanti, di esperimenti improvvisati e di manipolazioni. La spiga più grande e senza dispersione dei semi è il risultato di un sistema che produce molto più di quanto sarebbe spontaneo fare, al fine di soddisfare le esigenze di un primate di grossa taglia particolarmente affamato. Quest’ultimo ha l’abitudine, dopo un po’, di considerare naturale ciò che ha lungamente fabbricato.
La tentazione di attribuire alla natura un’autorità morale — in quanto buona, armoniosa, saggia dispensatrice di vita — fa parte del nostro corredo cognitivo contemporaneo, oltre che dei nostri sensi di colpa. In realtà, stando al suo successo mondiale, il grano ci ha addomesticato ben bene, usandoci come veicolo di diffusione. Quello coltivato è ormai così diverso geneticamente che spesso non si riesce più a incrociarlo con alcune forme selvatiche. Tra grani teneri e grani duri, ibridando, selezionando e talvolta creando mutanti con bombardamenti di raggi X, abbiamo prodotto migliaia di varietà. Sarebbe utile dare meno importanza alle categorie di naturale e artificiale, per concentrarsi maggiormente su quelle di economicamente giusto e ingiusto.
Anche la pelle chiara potrebbe essere connessa all’alimentazione a base di cereali: questa di per sé sarebbe povera di vitamina D3 (necessaria per la mineralizzazione delle ossa), ma nel frumento è presente un precursore della vitamina D, l’ergosterolo, che si converte nella vitamina sotto l’azione dei raggi solari, che traversano la pelle e raggiungono il sangue tanto più facilmente quanto più essa è chiara. Oltre alla ridotta insolazione, questo fatto deve avere favorito, fra gli agricoltori che colonizzarono l’Europa, le mutazioni che portarono un colore di pelle più chiaro. Sembra proprio che l’uomo e il grano si siano per millenni selezionati a vicenda.
A proposito, alcuni nel grano vedono talvolta persino dei cerchi. Ma è uno scherzo del vento, di un buontempone, o di una qualche dea del pane che da dodici millenni benignamente ci strizza l’occhio.
Telmo Pievani