Michele Farina, la Lettura (Corriere della Sera) 09/12/2012, 9 dicembre 2012
LA CASA E’ TRASPARENTE
In una via Chicago, zona Lincoln Park, i passanti vedono la figlia del dottor Patel che fa i compiti nella sua stanza al secondo piano (e la mamma Mojan dice che non c’è niente di male). Con le pareti di cristallo anche il soggiorno è in piena vista, come quando abitavano in un appartamento al 42esimo piano: oltre a loro che guardano fuori, adesso c’è qualcuno che guarda dentro. A New York la signora Valevich ha piazzato una scultura di Dustin Yellin sul muro opposto alla parete trasparente che dà sul parco sopraelevato della High Line: «Condividere un’opera d’arte con quattro milioni di persone che passeggiano vi sembra una brutta idea?».
Le case di vetro in America spuntano qua e là nei centri urbani. Una volta rappresentavano il futuro, l’utopia della trasparenza, roba da ricchi con tenuta privata o visionari come Philip Johnson che costruì la sua famosa glass house nel 1949 in un bosco del Connecticut. Johnson vi morì nel 2005, poi la casa diventò museo. L’architetto Barry Yoakum non sarà mai famoso e l’appartamento da classe media che si è costruito nel cuore di Memphis non diventerà un museo, anche se ogni tanto qualche pullman di turisti si ferma per scattare le foto alla sua «scatola» di vetro: «Ho amici che fanno ore di auto per ritemprarsi in una casetta sul lago — ha raccontato al "Wall Street Journal" —. Io abito a cinque minuti a piedi da tutto, eppure dal mio letto vedo la luna e gli uccelli sul Mississippi. Vivere nelle case-caverne non fa per me». Per le pareti ha usato lo smart glass, che blocca il calore del sole e lascia fuori i raggi ultravioletti. Costo: 53 mila dollari (vetri normali 40 mila) su un conto totale di 400 mila (300 mila euro) per 200 metri quadri. Alcuni esperti di sicurezza sconsigliano abitazioni «aperte» anche agli sguardi dei ladri. Ma Yoakum dice che non si sente più vulnerabile: il sistema di allarme fa accendere tutte le luci. E i curiosi? Neil Denari, che ha progettato palazzi trasparenti che si affacciano sui percorsi pedonali della High Line a New York, parla di un nuovo «discorso pubblico-privato»: «Gli inquilini che abitano ai piani bassi non sono eccentrici reclusi in cerca di un nido invisibile». Il signor Salomon, 42 anni, quando lavora da casa ama guardare le persone fuori. La signora Mireles dice che «danno energia». E ti «costringono a tenere in ordine».
Un voyerismo al contrario, da dentro a fuori? Vedere senza essere visti si può: a Venice in California Thomas Ennis, che ha fatto i soldi inventando sistemi per il lavaggio auto, si è fatto costruire sulla passeggiata davanti all’oceano una residenza a tre piani da 335 metri quadri, con pareti di cristallo specchiante: da dentro Ennis guarda il Pacifico e l’umanità balneare che non lo vede ma fa ginnastica e si rifà il trucco davanti al muro-specchio. L’ideatore della casa da 1,6 milioni di dollari, l’architetto David Hertz, dice che il fenomeno delle glass houses ruota intorno al desiderio «di non essere mai disconnessi dal mondo esterno, oltre al piacere di vedere che tempo fa senza aprire la finestra».
Per Franco La Cecla, 56 anni, antropologo e architetto, il grande sogno della trasparenza che si è formato tra le due guerre mondiali oggi è ripreso come citazione in chiave postmoderna. «Un’utopia un po’ protestante che prendeva molto dalla tradizione calvinista, olandese, dai modelli scandinavi — dice. — Se uno va in Olanda o in altri posti del Nord Europa le case sono fatte così, si vede tutto quel che c’è dentro». La grande rivoluzione del vetro migra in America e fiorisce con Mies van der Rohe e Johnson. Ma poi al posto di questa utopia subentra quella raccontata da Reyer Banham, «la casa che non avrebbe nemmeno bisogno delle pareti perché è un hub in cui arrivano tutti i terminali». L’esigenza di stare sempre connessi non rende attuale la casa di vetro? «È vero che siamo sempre più connessi — dice La Cecla — però siamo anche sempre più sospettosi dei contatti diretti con le persone. Su Facebook e non in strada, fuori, dove si gioca la fisicità dell’interazione umana che è poi quella che crea davvero le regole della convivenza» (Una morale per la vita di tutti i giorni è il libro scritto da La Cecla con Piero Zanini per Eleuthera). Dunque la ripresa del vetro nelle abitazioni «ricorda la vicenda dei finestrini fumé delle limousine, con il ricco o sedicente tale che vede all’esterno ma per favore non vuole essere visto».
Case di «vetro blindato» più che l’utopia della trasparenza. Eppure il signor Grant Risdon di Seattle che dice «non abbiamo niente da nascondere» non sembra il ricco delle pareti a specchio né la vittima di un voyerismo da reality. Se fosse un politico, lo voteremmo. Per noi la casa di vetro è diventata la metafora del buon governante, come Livio Druso tribuno della plebe di cui Plutarco nei Consigli politici racconta la giusta fama: siccome la sua casa aveva molte parti esposte alla vista dei vicini e un artigiano lo assicurava che per soli cinque talenti le avrebbe orientate diversamente, lui rispose: «Ne avrai dieci se la renderai tutta trasparente perché i cittadini possano vedere in che modo vivo io». Per Chiara Giaccardi, che insegna sociologia e antropologia dei media alla Cattolica di Milano, casa di vetro è un ossimoro interessante: «La trasparenza si scontra con la radice "ca" della parola casa che indica nascondimento, protezione, e anche difesa (la stessa di castrum, castello)». Esprime un valore in quanto «mette in discussione il modello dell’appartamento: porta ben chiusa, gadget e totale isolamento». Epperò «l’utopia della trasparenza — dice Giaccardi alla "Lettura" — è la negazione dell’alterità, che è ciò che ci fa resistenza, che è opaco. L’alterità è iscritta da sempre nella struttura della casa, ce lo spiega nel suo saggio sulla casa kabila Pierre Bourdieu: la casa riprende le dialettiche che hanno a che fare con la vita umana, giorno e notte, umido e secco, luce e ombra. La trasparenza annulla queste differenze e poi cancella quello spazio liminale fondamentale che è la soglia: se tutto è esposto, non serve più lo spazio intermedio che consente di attraversare le differenze in maniera non conflittuale».
Nelle abitazioni sulla High Line di New York aleggia dunque l’«estimità» che secondo Zygmunt Bauman definisce il mondo dei social network, il contrario dell’intimità. Anche se Giaccardi non dà un’interpretazione così negativa, rifiutando il determinismo tecnologico: non sono la Rete o il vetro in sé ad annullare l’intimità, così come non bastano a farci restare «connessi». «Nella mitologia greca la dea del focolare, Estia, tiene la porta aperta e fa entrare il pellegrino e ascolta le narrazioni del giramondo Hermes». Pur non uscendo mai, Estia è connessa. Si può esserlo restando al centro di un meraviglioso riad di Marrakesh. E non nella casa trasparente di Barry Yoakum, che dal suo letto vede la luna e gli uccelli alzarsi in volo sul Mississippi.
Michele Farina