Alberto Alesina, la Lettura (Corriere della Sera) 09/12/2012, 9 dicembre 2012
IL DOMINIO DELL’ARATRO
La «World Value Survey» raccoglie sondaggi di opinione in un’ottantina di Paesi. Una domanda è la seguente: «Siete d’accordo con l’affermazione che quando i posti di lavoro sono scarsi gli uomini abbiano più diritto ad essere assunti rispetto alle donne?». Solo il 3,6 per cento degli islandesi risponde sì, mentre rispondono affermativamente il 28 per cento dei ruandesi, il 35 per cento degli svizzeri e il 95 per cento degli egiziani. La partecipazione femminile al lavoro più alta al mondo è nel Burundi, con il 94 per cento di donne che lavorano, in Italia è circa del 50, mentre il Pakistan ha la quota più bassa (17 per cento). Questi dati dimostrano due cose. Ci sono enormi differenze culturali tra vari Paesi riguardo alla divisione dei ruoli tra uomini e donne. Secondo punto: queste norme non dipendono solo dal livello di sviluppo del Paese. Quindi da cosa derivano? Una delle spiegazioni è l’uso dell’aratro in agricoltura in era preindustriale o precoloniale.
Un’antropologa ed economista, Ester Boserup, aveva avanzato già nel 1970 un’ipotesi che riguardava un confronto tra due tipologie di sistemi agricoli: la coltivazione intensiva basata sull’uso dell’aratro rispetto alla coltivazione a rotazione. Il ruolo della donna in società agricole tradizionali era estremamente diverso a seconda del tipo di regime prevalente. Un’intuizione simile l’aveva avuta il grande storico francese Fernand Braudel, che scrive riguardo alla Mesopotamia preistorica: «Le donne si occupavano dei campi. Facendo di tutto, dalla piantagione alla raccolta… ma poi gli uomini introdussero l’aratro riservandosi il diritto di usarlo… da ciò ne seguì una società dominata dall’uomo».
Ma che cosa c’entra l’aratro? La coltivazione a rotazione richiede molta manodopera e utilizza utensili manuali come la zappa. La coltivazione basata sull’aratro richiede meno manodopera, dato che si utilizza l’aratro per preparare il terreno. A differenza della zappa, l’aratro richiede notevole forza muscolare, soprattutto nel busto e nelle braccia, o per controllare l’animale che tira l’aratro, se non lo tira l’uomo stesso con uno sforzo ancora superiore. Per via di questi requisiti fisici, quando le pratiche agricole si basano sull’aratro, gli uomini hanno un vantaggio rispetto alle donne. Non solo, ma mentre la coltivazione a rotazione era compatibile con la cura dei figli piccoli nei campi, l’uso dell’aratro no, dato il pericolo rappresentato dalla presenza di grossi animali da tiro intorno ai bambini.
In un recente lavoro di ricerca disponibile sulla mia home page (http://www.economics.harvard.edu/faculty/alesina/files/PLOUGH%2BNOV%2B2012%2Bversion.pdf), il mio collega di Harvard Nathan Nunn, l’economista della Ucla Paola Giuliano ed io abbiamo verificato in modo sistematico che il ruolo dell’uso dell’aratro nell’agricoltura in tempi precoloniali e preindustriali influenza ancora oggi il ruolo della donna nella società. La mappa pubblicata in questa pagina mostra in quali zone si usava l’aratro e in quali no. Come si vede, c’è molta differenza anche all’interno di diverse zone dello stesso continente, sia in Africa che in Asia che in America Latina per esempio, e queste variazioni permettono di verificare l’ipotesi di Ester Boserup.
Che cosa abbiamo fatto? Prima di tutto, usando dati antropologici, abbiamo verificato la validità dell’intuizione di partenza della Boserup. I gruppi etnici che usavano l’aratro prevedevano una netta distinzione di ruoli e le donne accudivano unicamente alla casa, mentre nei gruppi con coltivazioni a rotazione le donne (e ragazze) partecipavano insieme agli uomini, e talvolta più degli uomini, all’agricoltura. Il passo successivo della nostra ricerca è stato quello di verificare se queste differenze storiche, risalenti a tempi remoti, implichino differenze di norme culturali anche oggi. La risposta è sì. Per verificarlo abbiamo combinato i dati etnografici precoloniali e preindustriali sull’uso dell’aratro, con indicatori attuali circa la visione degli individui sul ruolo della donna e dell’uomo, oltre che con misure riguardanti la partecipazione femminile ad attività fuori dell’ambiente domestico. La partecipazione al lavoro femminile oggi risulta molto più bassa proprio in quei Paesi in cui storicamente si coltivava prevalentemente con l’aratro, anche una volta effettuato un controllo su molti altri fattori che possono influenzare questa variabile.
Si obietterà, con ragione, che ci sono tantissime differenze fra questo e quel Paese, che potrebbero confondere queste differenze di ruoli. Da un lato abbiamo cercato di tenere conto di molte delle possibili differenze fra Paesi. Dall’altro ci siamo focalizzati su alcuni Paesi in cui vi erano differenze di uso dell’aratro in diverse regioni. Abbiamo verificato che, anche all’interno di uno stesso Paese, l’uso dell’aratro spiega differenze di ruoli tra i sessi. Non solo, ma siamo anche andati a livello di distretti all’interno di un Paese, usando dati estremamente disaggregati.
Infine abbiamo fatto un’altra verifica. Abbiamo considerato gli emigranti da Paesi in via di sviluppo verso Stati Uniti ed Europa. Le famiglie provenienti da Paesi in cui si usava l’aratro, anche quando emigrano altrove (Europa ed Usa appunto), mantengono le loro norme culturali riguardo al ruolo delle donne. Lo stesso dicasi per le norme, di segno opposto, dei Paesi che in prevalenza non usavano l’aratro. Questo risultato è importante, perché significa che certe norme «viaggiano» come un bagaglio culturale. Almeno per alcune generazioni rimangono anche quando individui con origini diverse vivono nello stesso Paese, quindi con le stesse politiche, istituzioni e regole.
Il lettore attento avrà notato che l’Europa ed il Nord America sono zone «aratro positive». In questi Paesi, si dirà, le donne sono emancipate e partecipano alla vita sociale e lavorativa. Due considerazioni: la prima è che, considerando l’Europa, la partecipazione delle donne alla forza lavoro è più bassa che in molti Paesi «aratro negativi», come si vede nel grafico. In Europa e Nord America le donne lavorano meno che nella media dei Paesi «aratro negativi». Come si diceva, la più alta partecipazione al lavoro delle donne è in Burundi, non in Europa! In secondo luogo è chiaro che non si vuole dire che l’aratro è l’unica determinante della partecipazione femminile alla forza lavoro. L’evoluzione storica, lo sviluppo socio-economico ed educativo contano in tanti altri modi. Infatti altri Paesi «aratro positivi», quando raggiungeranno livelli di sviluppo simili a quelli europei e nordamericani, probabilmente cambieranno un po’ anche la loro divisione di ruoli tra donne e uomini. Forse le primavere arabe sono un primo esempio.
A pensarci bene, questa è una visione «marxista» della cultura, nel senso che la «struttura», ovvero la tecnologia del modo di produzione (l’aratro) influenza la «sovrastruttura» (ovvero la cultura). Si potrebbe obiettare che l’uso dell’aratro è stato scelto proprio perché preesistevano norme culturali di un certo tipo, quindi sarebbe la cultura che determina la scelta tecnologica. In realtà abbiamo verificato che i gruppi etnici che hanno adottato subito l’aratro erano quelli che vivevano in zone in cui quella tecnologia era necessaria, utile e profittevole per motivi di conformazione geografica e climatiche. Pertanto è la geografia a determinare le scelte tecnologiche e queste ultime a influenzare le norme riguardanti l’organizzazione della famiglia.
Due possibili obiezioni a queste tesi. Primo: il fattore religioso. Il ruolo della donna nella società è visto in modo diverso a seconda delle religioni, si pensi all’Islam rispetto alla Riforma luterana o alle religioni tribali africane. Probabilmente le norme di comportamento tra i sessi di certe religioni sono il risultato di costumi preesistenti. Ester Boserup scrive che in società che usavano l’aratro nell’antichità «le donne si occupavano unicamente di doveri domestici, vivendo spesso in uno stato di esclusione nelle loro case, apparendo in pubblico coperte da un velo, un fenomeno associato alla cultura dell’aratro e sconosciuta in regioni a coltivazione di rotazione, dove le donne facevano la gran parte del lavoro agricolo». La seconda obiezione è che il ruolo della donna è cambiato molto nel tempo. Com’è possibile che norme nate molti secoli fa influenzino ancora oggi la cultura riguardo alla divisione dei ruoli fra i sessi? Nessuno nega, neppure questa ricerca sull’aratro, che la cultura si evolva. Anzi spesso vi sono rivoluzioni culturali che velocemente cambiano la società, si pensi alla rivoluzione degli anni Sessanta riguardante proprio il ruolo delle donne. Oppure si pensi ai movimenti femminili che, all’inizio del secolo scorso, lottavano per il sacrosanto diritto di voto per le donne. È evidente che tutto ciò è importante, ma rimane sempre vero che in queste società in movimento certe differenze fra culture permangono nel tempo, sia pure in un mondo in cui tutto si muove. Sappiamo bene che certe norme sociali e culturali si tramandano di generazione in generazione. Se una madre è abituata a lavorare in agricoltura, educherà le figlie a fare altrettanto e, anche quando la società diventa industriale, le norme sopravvivono. Senza contare che molti Paesi hanno tuttora un’economia prevalentemente agricola.
Dobbiamo allora rassegnarci alla discriminazione contro le donne nel mercato del lavoro e accettarla come un fatto ineluttabile? Certo che no. Tuttavia rendersi conto delle origini molto lontane di certe norme culturali aiuta a non fare due errori grossolani. In primo luogo aiuta a evitare di fare del pericoloso dirigismo culturale. Non siamo tutti uguali e le differenze fra culture non si sradicano dall’alto. Il secondo punto è che dobbiamo evitare conclusioni affrettate e superficiali. Per esempio, si dice spesso che in questo o quel Paese le donne lavorano meno perché i servizi sociali, per esempio gli asili nido, non sono sufficienti. Può darsi, ma non sarà che certi servizi non ci sono perché la cultura locale attribuisce alla donna certi ruoli che sono incompatibili con il mandare figli molto piccoli all’asilo nido e che quindi, pure se ci fossero più asili, resterebbero vuoti? Non è il tipo di Stato sociale che un Paese adotta frutto della sua cultura, basata più o meno sulla famiglia, e non viceversa? Ciò non significa accettare divisioni inique del carico di lavoro domestico, per non parlare di discriminazioni nel mondo del lavoro. Significa però evitare luoghi comuni superficiali e rifuggire da un altrettanto superficiale dirigismo culturale.
Alberto Alesina