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 2012  dicembre 09 Domenica calendario

L’OLANDA IL PIU’ EUROPEO DEI PAESI FISCALI

Tra gli Stati-falchi che im­pongono l’austerità all’U­nione Europea ce n’è uno che sembra schizofrenico. È l’O­landa, nazione tanto severa nel tassare i propri cittadini ed esige­re il rigore dagli altri governi quan­to tollerante con le multinaziona­li che la usano come base di par­tenza europea per trasferire in e­sotici paradisi fiscali i miliardi di euro incassati in Europa. Non ci sarebbe nulla di male, se la gene­rosità fiscale degli olandesi non fa­cesse perdere milioni di euro di entrate agli altri Stati dell’Unione. In Italia la settimana scorsa si è parlato a lungo del caso di Goo­gle, che ha ricevuto una visita “fuo­ri programma” della Finanza do­po che il racconto dei suoi com­plessi stratagemmi fi­scali è arrivato alle o­recchie del ministro Corrado Passera. Semplifichiamo: il motore di ricerca fat­tura in Irlanda i soldi della pubblicità ven­duta a clienti italiani, quindi spo­sta quasi tutti gli incassi nei Paesi Bassi pagando salate royalties al­la sua controllata olandese e infi­ne rimanda il denaro in Irlanda, a una holding di diritto irlandese ba­sata però alle Bermuda. Alla fine del giro il denaro va ai Caraibi e lì si perdono le sue tracce. Google nel 2011 ha pagato appena 8 mi­lioni di euro di tasse sui 12,5 mi­liardi fatturati in Europa.

Ma il motore di ricerca non è l’u­nico furbo in un mondo di inge­nui. Applicano un sistema molto simile diverse aziende americane, e quasi tutti i colossi del Web, com­prese Facebook, Apple, Amazon. Si è rivolta a commercialisti al­trettanto abili anche Starbucks, la catena americana dei caffè che qualche giorno fa ha finito per ar­rendersi alle pressioni del fisco in­glese accettando di pagare al Re­gno Unito 20 milioni di sterline. Dal 1998, anno in cui aveva aper­to il suo primo caffè inglese, Star­bucks aveva incassato 3 miliardi di sterline lasciando solo 8,6 mi­lioni al fisco.

Colpisce, in tutte queste vicende di furbizie fiscali europee, come ci siano sempre di mezzo l’Irlanda e l’Olanda. Dublino fa meno scan­dalo perché la sua strategia è no­ta e più accettabile: arrivata agli anni Novanta come uno dei Paesi più poveri d’Europa, l’Irlanda è riuscita a catturare gli investimenti delle grandi aziende straniere ap­plicando una tassazione bassissi­ma sul reddito d’impresa (l’ali­quota è al 12,5% contro il 31% ita­liano) e sul lavoro (il cuneo fisca­le medio è del 15,2% contro il 35% della media europea). Il risultato è che diversi nuovi colossi ameri­cani hanno scelto di basare in Ir­landa il loro quartier generale eu­ropeo, e lì hanno costruito uffici e assunto personale.

Nessuna multinazionale non o­landese assumerebbe invece per­sonale nei Paesi Bassi, dove le tas­se sul lavoro e sul reddito di im­presa non sono particolarmente convenienti. Le migliaia di società olandesi create da aziende stra­niere sono invece imprese fittizie, senza veri uffici e addetti, quasi sempre affidate a un “trust”, una fiduciaria. Sono società vuote, ma legali e molto diffuse. Hanno al­meno una controllata finanziaria in Olanda 80 delle 100 aziende più grandi del mondo. Tra le tante multinazionali che hanno scelto Amsterdam come sede della pro­pria attività europea ci sono Nike (che addirittura ha lì delle ’coo­perative’), Sun Microsystem, Ikea, Boeing, Disney, Prada, Gucci. È o­landese anche Oilinvest, il fondo che raccoglieva i soldi della fami­glia Gheddafi, e sarà olandese la nuova Fiat Industrial, dopo la fu­sione con la controllata Cnh.

Tutti vanno in Olanda perché lì c’è un ambiente fiscale che sembra pensato da un commercialista ge­niale. Per prima cosa le società o­landesi non devono pagare tasse sui dividendi o sui profitti di capi­tale ottenuti all’estero da società controllate. Poi Amsterdam ha fir­mato una straordinaria quantità di patti fiscali con altre nazioni (circa un centinaio) per ridurre le ritenute alla fonte su dividendi, in­teressi e royalties (cioè diritti di proprietà intellettuale) incassati dall’estero. In particolare il patto firmato tra l’Olanda e l’Irlanda fis­sa l’aliquota a zero in tutti e tre i ca­si.

Gli accordi fiscali firmati negli an­ni dall’Olanda con ex colonie o at­tuali dipendenze esotiche – come l’isola di Aruba, a nord del Vene­zuela – consentono anche di tra­sferire denaro verso queste aree con una spesa minima, quando non gratis. Così convogliare ad Amsterdam i soldi rastrellati nel Vecchio Continente e da lì spedir­li lontano dagli occhi del fisco eu­ropeo, magari ai Caraibi, consen­te enormi risparmi fiscali. I dati del Fondo monetario internazionale danno un’idea della dimensione di questo fenomeno: l’Olanda ha incassato nel 2011 3.327 miliar­di di dollari di “inve­stimenti” dall’estero, 200 miliardi in meno della somma degli in­vestimenti diretti ver­so Cina e Stati Uniti. Non è una recente furbizia ad a­vere reso l’Olanda così conve­niente. I Paesi Bassi hanno sempre avuto un’economia basata sul commercio con l’estero. La Com­pagnia olandese delle Indie o­rientali, nata all’inizio del 600, è stata una delle prime multinazio­nali della storia. Evitare una dop­pia tassazione sui profitti che le società olandesi fanno all’estero è stata un esigenza antica e auten­tica, che però nel tempo si è tra­sformata in una cattiva abitudine. Già negli anni Ottanta andava di moda il cosiddetto “Dutch Sandwich” dei Gruppi nordame­ricani, che consisteva nel far gira­re i soldi dall’Olanda alle Antille O­landesi per schivare gli occhi del fi­sco. Quel panino troppo goloso è stato eliminato da Amsterdam - su pressione internazionale - negli anni Novanta. Ma quasi 15 anni dopo i “severi” Paesi Bassi sono ancora il porto franco che per­mette a tante multinazionali di mandare ai Caraibi i loro profitti europei lasciando a bocca asciut­ta gli agenti del fisco.