Mario Ajello, Il Messaggero 9/12/2012, 9 dicembre 2012
UN ANNO DI TECNICI TRA EUROPA E SOBRIETA’
Doveva essere un governo tecnico. Ma siccome i governi tecnici in realtà non esistono, neanche questo lo è stato. Il 18 dicembre avrebbe compiuto tredici mesi, ma non ce l’ha fatta ad arrivare a tanto. E tantomeno a finire la legislatura anche se tutti avevano scommesso che, portato per la mano dal presidente Napolitano e assecondato dalla debolezza dei partiti, avrebbe concluso senza troppi scossoni il programma ambizioso che si era prefissato. E che all’inizio Mario Monti aveva sintetizzato con il nome dei due provvedimenti simbolo di questa stagione che ieri si è precipitosamente interrotta: Salva Italia e Cresci Italia.
L’idea del baratro nel quale non far precipitare l’Italia è stato il leit-motive di questa parentesi di governo e anche in queste ore Monti insiste sul fatto che «abbiamo evitato il collasso del Paese, facendo cose che la politica non sarebbe stata capace di fare». Ma non è durata molto la Monti-mania come trend nazionale, però mai nazional-popolare, se si fa eccezione per quel nucleo forte di sostenitori che il professore ha avuto e continua ad avere nell’area di centro e in settori esigui o limitati del Pd e del Pdl. In questi tredici mesi scarsi c’è stato il tentativo, da parte degli italiani e da parte di Monti, di comprendersi a vicenda o comunque di studiarsi anche con qualche difficoltà. Che non ha scoraggiato il premier: «Non è affatto detto, anzi è falso, che provvedimenti anche dolorosi non vengano poi compresi dagli italiani». Chissà se la pensa ancora così il premier di colpo diventato ex. E comunque quel messaggio era rivolto ai partiti e ai leader della «strana maggioranza» ABC (Alfano, Bersani, Casini), i quali hanno avuto un rapporto dialettico e anche punteggiato da scontri plateali - dalle liberalizzazioni fino alla legge di stabilità - con questa esperienza di governo anomala.
Il famoso tweet di Casini (la foto che ritrae Monti e i tre leader a colloquio di notte a palazzo Chigi) è diventato l’icona della nuova politica della responsabilità nazionale. Che ha avuto i suoi bassi: la vicenda degli esodati. I suoi alti: le riforme nel campo della giustizia, fino all’anti-corruzione il cui seguito sull’incandidabilità si è rivelato però esplosivo. Le sue scelte irrinviabili: la riforma delle pensioni, con tanto di lacrime del ministro Fornero. Le sue cadute di stile: qualche scontro interno di troppo, qualche membro dell’esecutivo troppo ciarliero, Monti che dice «il lavoro fisso è monotono». I blitz (contro gli evasori fiscali, proverbiale quello a Cortina) e i tormentoni: la riforma del mercato del lavoro in mezzo a piazze antagoniste e combat che denunciano una «macelleria sociale» che non c’è stata troppo. Le mezze retromarce a causa delle lobby: sulle liberalizzazioni. I grandi picchi internazionali: Obama e Merkel che ammirano Monti, il mondo che ce lo invidia, l’Italia di nuovo credibile in Europa. La discontinuità è stata l’ingrediente forte di questa stagione così definita da Monti: «Un’esperienza dura per chi ha governato e durissima per chi è stato governato». Sono cambiate anche le parole. «Agli italiani bisogna dire la verità»: così esordì il capo del governo. Altra parola-chiave è stata il rigore. Che nelle tasche dei cittadini s’è tradotta con tre lettere dolorose: Imu. C’è stato chi - parola di ex premier - «non ha capito niente del processo delle riforme in Italia» e chi, una minoranza, crede che dopo Monti nulla sarà più come prima. Ma non è affatto detto che sarà così.