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 2012  dicembre 09 Domenica calendario

Tra tutti i registi Liliana Cavani è la più appartata. Non presenzia, non rilascia, quasi mai, dichiarazioni e quando proprio è incalzata dagli eventi dice, con cortesia, di non aver nulla da commentare

Tra tutti i registi Liliana Cavani è la più appartata. Non presenzia, non rilascia, quasi mai, dichiarazioni e quando proprio è incalzata dagli eventi dice, con cortesia, di non aver nulla da commentare. C´è il cinema, quello che ha girato, che parla al suo posto. Anche qui, a dire il vero, si nota un certo imbarazzo a commentare, a spiegare, a orientare convinta com´è che un autore tende, anche involontariamente, a giustificare e a volte a mistificare il proprio lavoro. È timida Liliana Cavani. Così a me appare. Di quella timidezza un po´ aspra e sospettosa, capace di improvvise aperture: «Non so definirmi» dice di sé. «Però mi sento ancora viva e lontana dai marmi dell´accademia», aggiunge. Un libro di Francesca Brignoli (edizioni Le Mani) ne ripercorre la carriera. Lo sfoglio e penso che il suo cinema, una ventina di film, è un distillato di rigore, di sensualità, di tormento. Come se l´occhio della macchina da presa venga attratto dalle zone meno prevedibili dell´esistenza umana, le più ardue e instabili. A cominciare da quel gioiello, Francesco d´Assisi, che fu il suo esordio: «Parliamo di oltre mezzo secolo fa. Era il mio ingresso vero alla regia. Però avevo girato alcuni importanti documentari per la Rai. Tra questi una Storia del Terzo Reich che fu una delle prime testimonianze su cosa era stato l´antisemitismo in Germania. E sulla difficoltà che incontrammo nel raccontare quell´immensa follia». Difficoltà di che genere? «Riuscii ad avere i filmati inediti, che erano conservati a Washington, su quello che accadde nei lager nazisti. Fu per me scioccante vederne le immagini. Allora la televisione aveva solo due canali e si pensò che potessero andare sul primo. Ma ci fu un veto dell´ambasciata tedesca. Alla fine potemmo utilizzare solo qualche scena per la seconda rete. Ricordo che la delusione fu tanta». Lei non nasceva documentarista. «Mi ero laureata in storia della lingua su un manoscritto del Quattrocento. Ma non vedevo la filologia nel mio futuro. Sfruttai l´occasione di fare un concorso in Rai nei primi anni Sessanta. Lo vinsi, come lo avevano vinto qualche anno prima a Torino Eco e Vattimo. Ma non volevo fare la funzionaria. Nel frattempo, mi ero anche diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia. Per cui proposi alla Rai, che mi aveva assunto, di cambiare il contratto. Volevo fare cinema e farlo liberamente». Da cosa nasceva tanta determinazione? «Da una passione che mi ha trasmesso mia madre. Quando ero piccola la mamma mi lasciava spesso al cinema Fanti di Carpi. Era un posto pulcioso. Entravo al pomeriggio e poi alla sera tornava a prendermi». E suo padre? «Papà era un architetto urbanista. Lavorava spesso all´estero. Passò un lungo periodo in Iraq, almeno fino a quando ci furono gli inglesi. Ricordo che ogni tanto andavo a trovarlo a Roma. Non c´era un gran rapporto con lui. Non si era comportato bene con mia madre. E quando volle regalarmi la sua cinepresa rifiutai. Non desideravo nulla da lui. Volevo solo percorrere la mia strada». Francesco uscì quasi in contemporanea con Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. Due opere a sfondo religioso in un Italia che si andava allontanando dalla fede. «Il film di Pier Paolo era apparso qualche mese prima. Ricordo che la teologa Adriana Zarri ci intervistò proprio su questo tema della fede perduta. Ad ogni modo Francesco fu mostrato al Festival di Venezia. I fascisti lo attaccarono. Ma ebbe un grande riconoscimento di critica e di pubblico. Quell´anno Rossellini presentava La prise de poivoir par Louis XIV. Ci intervistarono spesso insieme: la giovane e il grande maestro». Che ricordo ha di Rossellini? «Non ho mai sentito nessuno raccontare tanti aneddoti su di sé e sul proprio mestiere». E invece Pasolini? «Era intelligentissimo e colto, ma anche sensibile e impulsivo. Da allora cominciammo a frequentarci. Ci vedevamo spesso a casa di Laura Betti. Le sue cene me le ricordo. Venivano Moravia e Dacia Maraini, qualche volta Isabella Rossellini e il suo compagno di allora: Martin Scorsese. La prima volta Laura mi disse: stasera ci sarà anche la Martina, intendendo Scorsese. Declinava i nomi dei maschi al femminile». Per vezzo? «Perché si divertiva. Per lei non contava il genere ma l´intelligenza. Era dotata di una finta cattiveria che adoravo. Raramente mi è capitato di conoscere una persona così ospitale e accuditiva come Laura. Si incupì molto dopo la morte di Pier Paolo». Lei come reagì a quella tragedia? «Ero a Los Angeles quando proprio la Betti mi fece una telefonata notturna: "Liliana, hanno ammazzato Pier Paolo". "Ma che dici? Sei ubriaca!", reagii incredula». Cosa pensa del cinema di Pasolini e del fatto che oggi alcuni lo considerano eccessivamente intellettuale? «Non me la sento di giudicare il suo cinema. Per me la sua figura si intreccia ai sentimenti che abbiamo condiviso. Faceva film da uomo colto. Credo che si sia sempre portato dietro la vocazione all´insegnamento e alla pedagogia. Sapeva però essere molto controcorrente». E lei? «Io cosa?». Sente di vivere controcorrente? «Non spetta a me dirlo. Certo, il fatto di aver vissuto con un nonno materno molto libero e profondamente antifascista, mi ha trasmesso un certo spirito libertario. Al tempo stesso, quando a Carpi arrivava qualche alto gerarca da Roma, tutti in famiglia ci mettevamo in allarme. Quindi, la mia reazione al conformismo è al contempo di ansia e liberazione. Dopo un gesto di rottura mi chiedo sempre: e ora che cosa accadrà?». Una domanda che si sarà rivolta quando uscì Il portiere di notte. «Eravamo un po´ preoccupati dalle reazioni e dalla censura. Per questo il produttore americano, Bob Wilson, suggerì di farlo uscire prima a Parigi». E come andò? «I giornali e le riviste dibatterono in modo serio se si poteva affrontare il nazismo mettendo al centro un eroe negativo. Ricordo che Michel Foucault difese il film mentre i Cahiers du Cinéma lo attaccarono. Per me Il portiere di notte era una metafora sul male che ci contagia e su un popolo che in parte aveva rifiutato la colpa». Non sapevo che Foucault fosse intervenuto a suo favore. «Gli era molto piaciuto. In seguito ci vedemmo qualche volta a cena. Era charmant e immensamente colto. Una sera ci divertimmo enormemente. Mi portò a sentire la sua amica Hanna Schygulla che interpretava le canzoni di Marlene Dietrich. Altri tempi». Lo dice con rimpianto. «Semmai con la consapevolezza che non torneranno. C´era una comunità intellettuale che non aveva confini e si frequentava intensamente. E quanto al cinema non c´era quello italiano, francese, tedesco. Ma un cinema europeo dentro il quale trovavi Fassbinder e Bertolucci, Godard e Bellocchio. C´era molta condivisione. Oggi siamo diventati animali marginali. Senza più lo sguardo internazionale». A questo proposito, lei ha spesso lavorato con attori internazionali. Come riuscì ad avere Dirk Bogarde nel Portiere di notte? «Fu meno complicato del previsto. Non volevo un macho. Dirk che aveva girato La caduta degli dei mi pareva perfetto. L´andammo a trovare, insieme alla mia agente Carol Levi non lontano da Nizza. Facemmo una cena molto gradevole io, Carol, Dirk e il suo compagno, un colonnello inglese molto simpatico. Per tutta la sera Dirk non fece che bere whisky e io birra. Alla fine eravamo completamente ciucchi e francamente non ricordo di che cosa parlammo». Accettò subito il ruolo? «Ci dimenticammo di fargli firmare il contratto, e soprattutto di parlargli della sceneggiatura. Accettò per simpatia. E quando lesse il copione, mi chiese solo di prendere nel ruolo della contessa Simone Signoret. Ma lei non poteva per cui pescai Isa Miranda. Dirk rimase molto sorpreso. L´aveva conosciuta a Los Angeles in anni remoti e la considerava straordinaria. Il primo giorno le fece trovare sul set un enorme mazzo di rose». Era un uomo generoso. «Era di una finezza unica e il suo modo di fare ci contagiava. Ricordo la disperazione di Charlotte che negli ultimi tempi gli fu molto vicina prima che lui morisse». Charlotte intende la Rampling? «Era l´interprete femminile. Ricordo che quando il film fu presentato a New York, Bob Levine – che aveva portato La dolce vita in America – organizzò un pranzo al "Four Season". Venne anche Andy Warhol. Charlotte era molto preoccupata dall´atmosfera mondana e dal fatto che il giorno dopo avrebbe dovuto rilasciare molte interviste. A un certo punto sparì». Cos´era accaduto? «Si era rinchiusa nella toilette. La trovai impaurita. Mi disse che non voleva avere rapporti con la stampa. Mi disse che temeva di essere messa a nudo. Le risposi che doveva farle. Ne andava del film. Niente. La mattina dopo partì con il suo compagno neozelandese. La voleva lontana dalle città. Farla vivere insieme alle pecore». Era una donna fragile? «No, aveva solo un compagno sbagliato». Diceva della presenza di Andy Warhol. «Aveva un modo di sedere un po´ strano: con le mani appoggiate al mento e i gomiti sulle ginocchia. Immobile, con quella maschera sovrastata dalla sua parrucca gialla. Talmente innaturale da diventare un marchio inconfondibile. Lo vidi a più riprese. Era un uomo silenziosissimo». Le piace l´arte contemporanea? «Fa parte del nostro paesaggio, come il cinema, usa il linguaggio per immagini». E la video arte? «Ho visto troppe cose banali per piacermi. Forse dovrei insistere. Preferisco il cinema. Duttile. Paradossale. Vitale. Pensi a Fellini. Tutto il tempo non ha fatto che raccontare se stesso». Chi è per lei il più importante regista italiano? «De Sica lo trovo irraggiungibile. Se ci fosse un film da salvare salverei L´oro di Napoli. Lo vedi e capisci anche chi siamo stati noi italiani». E cioè? «Un popolo che proviene da una cultura antica. E mi fa disperare che la forza di questo paese sia stata sperperata. Mi indigna vederci fuori da tanta arte e tanta cultura. Indifferenti al bello». Si sente una sopravvissuta del Novecento? «Non sono mai stata un´entusiasta di quel secolo anche se ho provato a raccontarlo nella sua crudeltà e grandezza. Ma non mi sento una sopravvissuta. Penso anzi che ancora sia possibile rinascere e ricominciare. Forse sono un po´ ottimista, come quel mio nonno materno che mi insegnò a guardare alla vita con gli occhi della speranza».