A.O. Scott, la Repubblica 9/12/2012, 9 dicembre 2012
NEW YORK
per una persona della mia generazione è superfluo dire che Robert De Niro è il migliore attore cinematografico della sua. Essere stato un adolescente che agli inizi degli anni Ottanta e Novanta quasi si istupidiva guardando film ha voluto dire assistere - in tempo reale e a un´età in cui ci si lascia impressionare facilmente - a performance che di lì a poco sarebbero diventate vere e proprie testimonianze. De Niro si trasformava - fisicamente, vocalmente, psicologicamente - a ogni nuova interpretazione. E così facendo, sotto i nostri occhi, ha reinventato l´arte della recitazione.
Devo dunque confessare che mi sono dovuto avvalere di tutta la mia disciplina professionale per resistere alla tentazione di sprecare il tempo che ho avuto occasione di passare con De Niro un sabato pomeriggio nell´interpretare il fanatico che a bocca aperta ne ricorda tutte le parti più famose. Tipo: «Oh mio Dio, ma lei è Jake LaMotta! È Johnny Boy! È Travis Bickle! E io sto parlando proprio con lei...». Senza dimenticare che per le generazioni di americani più giovani, De Niro è identificabile per lo più come Jack Byrnes, l´impossibile suocero di Ben Stiller nella saga dei Focker (Mi presenti i tuoi?).
In quarant´anni di storia del cinema De Niro non ha mai mollato, non è mai peggiorato, non è mai sparito, ma anzi un anno sì e un anno no ha sempre prodotto film caratterizzati da serietà e attenzione ai dettagli, tutti elementi che in lui c´erano sin dagli esordi. Nella nostra chiacchierata, che si è svolta nel suo ufficio di Tribeca, non ha sfoggiato quella calma bonomia che è tipica delle stelle del cinema quanto si ritrovano in compagnia di chi scriverà di loro. È rimasto seduto con i piedi ben piantati a terra e le mani appoggiate ai braccioli della poltrona di pelle nella quale era sprofondato, e le risposte che ha dato alle mie domande non sempre sono arrivate con facilità o prontamente. Rispondere per lui è stato un lavoro.
Lei ha lavorato con vari registi. Ci sono mai occasioni nelle quali si presenta a loro dopo essersi già fatto una sua idea del personaggio che dovrà interpretare?
«Quando mi presento ho già deciso che lavorerò con quel dato regista e quindi abbiamo già raggiunto un´intesa su quello che dovrà accadere. Non entro in lunghi e tortuosi scambi di vedute sul mio personaggio, e non decidiamo "si fa così o cosà". In definitiva quello che si deve fare è recitare quella parte. Il regista ti rispetterà sempre, per i motivi stessi per i quali ti ha assunto e scelto: interpretare quella parte e rispettare la tua interpretazione di quella parte».
La pensa allo stesso modo anche quando si trova dall´altra parte della cinepresa, quando è lei a dirigere?
«Qualsiasi cosa faccia, un attore non potrà mai sbagliare. Per gli attori è necessario avere questa sensazione, sapere che possono sperimentare come desiderano. Anche se sbagliano non importa, perché forse userò una parte del girato comunque. Una volta si gira a modo mio, poi una a modo suo e poi si decide insieme o io deciderò qual è la migliore. Talvolta si fa così anche solo per lasciare che l´attore venga fuori. So di aver fatto così io stesso. L´ho fatto, ho tirato fuori quello che avevo dentro e anche se in seguito ho capito che non andava bene, ormai l´avevo fatto».
Come andavano le cose quando lei era più giovane? Ha lavorato con alcuni registi molto giovani, spesso suoi coetanei, per esempio Martin Scorsese e Bernardo Bertolucci.
«Adesso sono più vecchio e ho molta più esperienza, quindi non me la prendo quando i registi con i quali lavoro se la prendono con me. Accade di rado. E di certo io non sono il genere di persona che si ritiene perfetta. Basta usare il buonsenso. Ma quando ero più giovane ero parecchio più nervoso. Con Bernardo talvolta mi è capitato… Il fatto che fosse europeo e avesse alcune richieste particolari…».
Per esempio?
«Per Novecento girammo le scene ambientate nel passato il primo giorno e credetti che quello fosse un errore. Non mi sembrava che le cose andassero come dovevano. Nessuno ci stava davvero con la testa. Non sapevo quello che stavo facendo, seduto lì, in un altro Paese, con un regista che per altro mi piaceva... Mi parve naturale chiedermi: "Che cosa stiamo facendo?". Ero sufficientemente in grado di capire che non si gira così, scene senza ordine. Mi adeguai, e non funzionò».
Quanto è importante per lei calarsi fino in fondo nei personaggi che interpreta?
«È molto importante. Come conta tantissimo l´aspetto fisico. Con un solo gesto si può caratterizzare e dare un´identità a un personaggio».
Una delle cose che più mi colpiscono è la coerenza con la quale ha continuato a lavorare per quarant´anni. Come fa ad andare avanti e a risultare sempre nuovo e diverso?
«Mi diverto. Mi piace. Specialmente quando si invecchia ci si inizia a rendere conto che non resta molto tempo. Poi guardandoti indietro pensi: "Gli ultimi quindici anni sono volati davvero". Non lo capisci finché non ci arrivi, ma le posso assicurare che quando ci arrivi e ti volti indietro ti chiedi: "Ehi, ma dove è andato a finire tutto quel tempo?" So che devo tener conto di ogni singolo giorno, ogni momento, ogni questo e quello, ma quel tempo è andato, finito. Quindi adesso ho soltanto ancora - che ne so? - quindici, venti anni, forse, se sarò fortunato, e devo pensare bene come utilizzare il tempo che mi rimane».
Che rapporto ha con i critici? E con le recensioni?
«Quello che dico sempre è che se nessuno ti critica - per quanto irritante possa essere, o talvolta frustrante - come fai a capire come stanno davvero le cose? Perché la gente di sicuro non te lo dice. Se mostri un film a delle persone, a un pubblico di conoscenti e amici, nessuno ti dirà che non gli è piaciuto, perché sono dalla tua parte, sanno che cosa hai dovuto passare per realizzarlo. Quindi troveranno sempre cose positive da dirti. Insomma, le uniche persone dalle quali si può avere un riscontro oggettivo sono i critici. Soprattutto i bravi critici».
Ha imparato qualcosa dalle recensioni che la riguardavano?
«Sì, ho letto una recensione di un film che ho fatto con Pacino, circa quattro anni fa. Interpretavamo due poliziotti e la critica disse che sembravo "gonfiato". Ho risposto che avevano ragione. E ho riso tanto. Perché in realtà lo avevo fatto di proposito, mi ero appesantito perché dovevo interpretare un poliziotto. È stato divertente».
Riguarda mai i suoi vecchi film?
«Ho sempre avuto l´intenzione di farlo, di guardare tutto quello che ho fatto, dai primi film a oggi senza interruzione».
So di attori che invece la pensano in modo completamente diverso. Gene Hackman per esempio ha detto che non gli piace vedere i propri film una volta che li ha terminati.
«Lo capisco. Anche io tutto sommato la penso così, ma dipende anche da quale film si tratta».
E che cosa prova guardando la sua performance durante le riprese?
«Tutte quelle storie secondo cui un regista non vuole che gli attori si guardino dopo le riprese per non preoccuparsi... In realtà non funziona così. È sempre positivo che un attore si guardi. Anzi, guardando sul monitor il registrato in playback un attore può rendersi conto esattamente di quello che sta facendo e di quello che non deve fare, delle correzioni che deve apportare. Se ti riguardi trovi sempre qualcosa da migliorare, qualcosa da perfezionare qua e là. È così che deve essere. Ho avuto registi che mi dicevano: "Guarda un po´ qui" e a quel punto ti rendevi conto da solo di quello che dovevi fare. Poi è vero, ci sono anche volte in cui guardarmi non mi piace affatto. Preferisco dire: "Ditemi che cosa volete che faccia"».
Ripercorrendo la sua carriera, scopro che ci sono molte più commedie di quanto mi aspettassi, e penso che lei sia un po´ sottovalutato come attore comico. Osservandola, per esempio, nei film della serie della famiglia Focker mi chiedo se il suo approccio a quei film sia stato diverso rispetto a quelli drammatici.
«Sì, è stato diverso, l´intero processo è diverso. In qualche caso mi piacerebbe di gran lunga fare qualcosa più sfumato, un po´ più complicato e più contraddittorio. Ma si tratta di film molto divertenti da interpretare. Non so se ne farò ancora».
Ha occasione di vedere molti film?
«Cerco di vederne, ma non sono mai riuscito a vederne tanti quanti dovrei. Mi passano quelli che secondo loro sono imperdibili e cerco di vederli. Ce ne sono di splendidi».
Le viene in mente uno che l´ha colpita in maniera particolare?
«Voglio chiederle io una cosa: ha visto Argo? Com´è? Perché mi incuriosisce molto, vorrei andare a vederlo».
È un ottimo film. Penso che Ben Affleck abbia fatto un ottimo lavoro alla regia. È incalzante, pieno di suspense. Ha qualcosa di Sesso e potere.
«Non mi viene in mente nessun film in particolare visto di recente. Mi è piaciuto moltissimo The Fighter».
Da ragazzino andava spesso a cinema?
«Certo, a vedere i classici, quei film magnifici con Montgomery Clift ed Elizabeth Taylor come Un posto al sole, La valle dell´Eden, quelli di James Dean, quelli di Brando. A quei tempi c´erano poche sale cinematografiche, si potevano vedere due film con un unico biglietto e nel mezzo c´era il cinegiornale».
Ripensando a quei tempi, quando e come ha deciso di voler diventare un attore?
«Più o meno intorno ai dieci anni. Per circa un anno l´ho pensato tutti i sabati. Poi ancora intorno ai sedici anni. Dopo una piccola pausa ho iniziato a pensarci sul serio intorno ai diciott´anni e mezzo, più o meno».
Quando ha capito per la prima volta che recitare era una cosa nella quale lei sarebbe potuto riuscire bene?
«Intorno ai diciott´anni. Ricordo che stavo guardando una trasmissione alla televisione, una soap opera o un telefilm western, e a un certo punto pensai che se quegli attori si guadagnavano da vivere così, senza essere affatto bravi, io non avrei potuto fare peggio di loro. Non pensavo di fare western, in verità, niente del genere. Quando mi applicai con serietà, vidi fin dove sarei potuto arrivare, quello che avrei potuto realizzare. Non era quello che mi aspettavo da giovane. Ma ricordo che la prima volta che pensai di diventare attore fu proprio guardando quelle trasmissioni in bianco e nero alla televisione».
Fu in quel momento che capì di poter fare di meglio.
«Esatto. Meglio di ciò a cui stavo assistendo».
Traduzione Anna Bissanti
© 2012 The New York Times