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 2012  dicembre 09 Domenica calendario

Per alcuni problemi non esistono soluzioni buone, ma soltanto soluzioni meno cattive. La cosiddetta «guerra alla droga» è la peggiore tra le cattive soluzioni

Per alcuni problemi non esistono soluzioni buone, ma soltanto soluzioni meno cattive. La cosiddetta «guerra alla droga» è la peggiore tra le cattive soluzioni. Uso il termine «cosiddetta» perché naturalmente non c’è nessuna guerra contro le sostanze che uccidono di più, e cioè alcol e tabacco. Inoltre, la dipendenza da medicine legali a base oppiacea sta diventando il peggior problema di droga negli Stati Uniti. Ma fin dal 1973 siamo «in guerra» contro le «droghe illecite», quali eroina, cocaina, marijuana e metanfetamina. Abbiamo speso miliardi di dollari (secondo alcune stime oltre mille miliardi) nel tentativo di fermare l’importazione di queste droghe dal Messico, dalla Colombia e da altri Paesi. Si tratta di una guerra che costa non solo denaro, ma anche vite umane, e questa è la cosa peggiore. Solo in Messico, negli ultimi sei anni sono state uccise più di cinquantamila persone per crimini legati alla droga. Con quale risultato? Le droghe sono più disponibili e più potenti che mai. Le nostre prigioni traboccano di donne e uomini condannati per crimini di droga, e il costo sociale e finanziario di tutto ciò è enorme. I cartelli messicani hanno ottenuto una ricchezza e un potere uguale o superiore a quello del governo del loro Paese, e l’orribile spirale di violenza (che include impiccagioni, decapitazioni e torture) continua a crescere, mentre i cartelli sono in guerra tra loro per il controllo del lucroso mercato della droga. Abbiamo creato una gigantesca burocrazia antidroga, a livello federale, statale e locale (in aggiunta al sistema correzionale). Questa burocrazia tende a perpetuare se stessa, e quindi ha interesse che la guerra alla droga continui all’infinito. Al momento, dopo trentanove anni, si tratta della più lunga guerra americana in assoluto. Insomma, abbiamo creato un mostro molto più grande di quello che volevamo combattere. Praticamente è stata la Dea (Drug Enforcement Agency), in un classico esempio della Legge delle Conseguenze Involontarie, a creare i cartelli della droga, quando negli Anni Settanta ha distrutto i campi dei coltivatori di papaveri da oppio nello Stato messicano di Sinaloa. La reazione dei coltivatori infatti è stata quella di riformarsi in una singola, potente organizzazione, detta La Federación, dividendo il Messico in plazas , o territori, per il contrabbando di droga. Quello che era nato come un fenomeno locale divenne un fenomeno nazionale. Cercando di asportare il cancro, ne abbiamo diffuso le metastasi in tutto l’organismo. Peggio, abbiamo contribuito a perpetuarlo. Sia ben chiaro, l’ establishment antidroga e i cartelli hanno un rapporto simbiotico: per sopravvivere dipendono l’uno dall’altro. Sono allo stesso tempo nemici mortali e grandi amici. E il circolo è davvero vizioso. Più si fanno intensi i nostri sforzi proibizionisti, più sale il prezzo delle droghe. Più è alto il prezzo, maggiori sono i profitti dei cartelli. Con l’aumentare dei profitti, aumenta anche la violenza per il controllo del mercato. I cartelli guadagnano perché le droghe sono proibite, è questo il fatale paradosso della «guerra alla droga». Perdiamo la guerra a causa del fatto stesso di combatterla. Le nostre vittorie sono fuggevoli e futili. È vero, abbiamo arrestato o ucciso alcuni leader dei cartelli. Ma per il commercio di droga si tratta di un problema temporaneo, e il nostro unico risultato è stato quello di liberare posti di lavoro per i quali vale la pena uccidere. Anche quando riusciamo a compromettere il potere di un intero cartello, il risultato finale è un autogol, perché altri cartelli calano in picchiata a raccogliere i pezzi. Con violenza. La gente del Messico paga con il sangue le nostre «vittorie». Non illudiamoci che si tratti solo di gangster che si ammazzano tra loro. Sono stati uccisi e torturati poliziotti, soldati, giudici, sindaci, giornalisti e tanti altri innocenti, anche donne e bambini, la cui unica colpa era quella di abitare nel quartiere sbagliato. La dura verità è che fin quando ci saranno compratori, ci saranno venditori. Gli Stati Uniti totalizzano circa il 5 per cento della popolazione mondiale, ma consumano grosso modo il 25 per cento delle droghe illecite nel mondo. Eppure, con un’ipocrisia la cui audacia è davvero incredibile, noi diamo la colpa ai Paesi «produttori» ed esigiamo che agiscano per controllare i loro problemi di droga. Non c’è nessun problema messicano della droga, il problema è degli Stati Uniti. Mentre il governo americano spende cifre che non può permettersi nel tentativo di impedire alle droghe di entrare nel Paese, una parte significativa della popolazione americana spende cifre (che spesso non può permettersi) per fare l’esatto contrario. I messicani devono avere l’impressione di vivere accanto a uno schizofrenico gigantesco ed esigente. Non c’è dubbio, l’America ha un problema di droga. Ma la soluzione non è il modello militare, una «guerra alla droga» che non prevede una chiara possibilità di vittoria, una strategia d’uscita o una strategia qualsiasi che non sia la fatalistica accettazione di uno stallo infinito. Non ha funzionato finora, non può funzionare e non funzionerà. Siamo intrappolati in un ciclo di arresti, retate e condanne fino al punto che diverse generazioni delle stesse famiglie hanno scontato condanne in carcere per crimini legati alla droga. È ora di porre fine a questa guerra. È ora di riconoscere il problema della droga come un problema di salute sociale, e trattarlo nel modo appropriato. La legalizzazione e la depenalizzazione possono sembrare disgustose e spaventose, ma sono alternative molto migliori di ciò che stiamo facendo ora. Nel 1970, il budget della prima «guerra alla droga» di Richard Nixon fu di 100 milioni di dollari. Quest’anno è stato di 15,1 miliardi, una cifra 31 volte maggiore di quella di Nixon, anche tenendo conto dell’inflazione.